top of page
sfondocapitoli.jpg

Dolce o piccante?

1

∾ Evan ∾

​

Scostò il polsino del giubbotto e lanciò un’occhiata all’orologio: le tredici e trenta.

A quell’ora sarebbe dovuto essere in cucina a evadere comande. Il sabato e la domenica erano i giorni in cui i clienti dai palati curiosi ed esigenti lo facevano girare come una trottola, tra pentole e fornelli. A pranzo o a cena non c’era differenza: la cucina del ristorante si trasformava in una bolgia infernale. Camerieri che gridavano annunciando richieste di variazioni dell’ultimo minuto, Commis che si scontravano davanti ai frigoriferi e all’abbattitore, il tintinnio di piatti e stoviglie che, unito al rumore della cappa aspirante, gli rimbombava nella testa e a fine serata l’udito si era abbassato di almeno un decibel.

Maledizione! Avrebbe dovuto essere lì, a dirigere quel caos. Invece se ne stava seduto in un parco - la mascella squadrata stretta in una morsa di rabbia - a rimuginare su come la sua vita fosse finita nel cesso in pochi minuti, per colpa di una stronza. Se solo ce l’avesse avuta tra le mani in quel momento, non era certo di riuscire a trattenersi dal torcerle il collo.

Puntellò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa tra le mani. «Coglione! Coglione! Coglione! Un maledetto stupido coglione! Ecco cosa sei.» Scosse il capo ripetutamente, e intanto si domandava come accidenti si fosse cacciato in quel casino.

Si batté più volte i pugni contro le tempie, poi si risollevò di colpo e si appoggiò allo schienale della panchina. Con un gesto meccanico, tirò fuori dalla tasca il pacchetto di Marlboro e si accese una sigaretta.

Le parole di Alessio continuavano a ossessionarlo, rosicchiando ogni timido pensiero positivo che tentava di affacciarglisi alla mente.

«Sei un figlio di puttana! Ti ho accolto come un fratello, e tu mi pugnali alle spalle. Mi fidavo di te, bastardo!» 

Agitò ancora il capo e incamerò a fondo quel veleno, risucchiandolo nei polmoni assieme al fumo. Un misto di delusione, rabbia e disperazione gli attanagliava il petto, togliendogli quasi il respiro.

Dannazione! Lui non era quel tipo di persona. Non tradiva gli amici. Anzi, non avrebbe mai tradito nessuno, men che meno Alessio. Al contrario, gli era grato per avergli offerto un lavoro e fatto da mentore. Da lui aveva imparato a buttare giù un menù, a curare la presentazione e la guarnizione dei piatti, a gestire gli approvvigionamenti e gli ordini alimentari, e soprattutto, stava imparando i segreti della cucina gourmet.

Doveva svegliarsi, cazzo! Doveva imparare a farsi furbo. Era ora di finirla con il rispetto, la gentilezza, la comprensione, l’onestà. Tutte qualità che non lo avrebbero portato lontano.

Dio, come avrebbe voluto urlare. Gridare non una, ma due, tre, infinite volte, fino a farsi bruciare la gola. Un vaffa al mondo intero, forte e liberatorio.

Si guardò attorno. Il parco ospitava un gruppo di giovani mamme con i loro pargoli intenti a fare festa. Si vedevano dei palloncini colorati svolazzare in aria. Alcuni bambini correvano reggendo in una mano un bicchiere di carta, il cui contenuto finiva per lo più a terra, e nell’altra un pezzo di pizza o una fetta di torta cui ogni tanto davano un morso, tra risate e gridolini. Le mamme sorridenti chiacchieravano tra loro. Alcune facevano dondolare le carrozzine con gli ultimi arrivati. Una era seduta in disparte con il neonato attaccato al seno.

No, non poteva urlare. Avrebbe spaventato quei piccoletti, e le povere donne terrorizzate avrebbero chiamato la polizia. E cosa avrebbe potuto raccontare agli agenti appena gli si fossero presentati davanti? Sarebbero bastati i documenti a confermare che Evan Moretti era un cittadino modello, educato e rispettoso, e non uno squilibrato potenzialmente pericoloso per sé e per gli altri?

Gettò a terra il mozzicone, ormai ridotto a una poltiglia di filtro e saliva masticata tra i denti e lo sostituì con l’ultimo Chewing Gum alla menta sepolto nel taschino interno del giubbotto.

Strofinò ripetutamente i palmi sulle cosce battendo nel mentre i piedi a terra. Aveva i muscoli intorpiditi. Stava congelando dal freddo. Doveva essere l’effetto dello shock, perché quanto era accaduto lo aveva toccato al pari di una tragedia.

Ad ogni modo, questo avrebbe meritato: morire assiderato, come la giusta punizione per il cretino che era.

Diede un calcio a un ramo secco che giaceva inerte dinanzi ai suoi piedi. Pareva fosse stato messo lì apposta per sfogare la sua frustrazione. Poi si lasciò andare contro lo schienale della panchina e chiuse gli occhi.

Dannazione! Il bravo ragazzo stava ancora una volta direzionando le sue azioni.

“Non si urla in pieno giorno, in un parco affollato di bambini che potrebbero spaventarsi. Che direbbero le mamme e le altre persone che passeggiano lungo i viali? Penserebbero che sei un pazzo e tu non vuoi che lo pensino. Non vuoi che pensino male di te, non è così?”

Ma perché diavolo doveva importargli del giudizio di un gruppo di sconosciuti? Perché doveva importargli di turbare la loro festa, le risate, la serenità, la loro gioia di vivere?

Fanculo! Sarebbe mai riuscito a cambiare? Sarebbe mai diventato un figlio di puttana per davvero?

«Mamma! Mamma! Guarda! È tutto sporco.» Quel tono allarmato gli fece riaprire gli occhi di scatto.

A poco più di mezzo metro dinanzi a lui, un bambino puntava il dito diritto alla sua maglietta bianca che spuntava dal giubbotto aperto. Abbassò lo sguardo sulle macchie color rosso mattone. Il sangue ormai incrostato aveva intriso il tessuto rendendolo rigido. Storse la bocca contrariato. Avrebbe dovuto buttarla, di certo neppure con la candeggina sarebbe venuto via.

«Smettila, Ugo. Sta’ zitto! Non si indicano le persone. È maleducazione.» La donna gli rivolse un sorrisetto imbarazzato, prima di accelerare il passo, trascinandosi dietro il figlio.

«Ma è vero. È sporco. Tu ripeti sempre che non bisogna dire bugie,» si lagnò il piccoletto.

Li seguì con lo sguardo, mentre tirava su la zip del giubbotto fin sotto il collo.

«Ti ho detto di stare zitto.»

Man mano che si allontanavano, il bambino continuava a portare avanti le sue ragioni, gesticolando animosamente e voltandosi a guardarlo di tanto in tanto. La donna aveva rallentato. Sembrava sempre più insofferente. All’improvviso la vide girarsi e mollare uno schiaffo al figlio chiacchierone. La reazione del piccolo fu immediata. Con una mano alla guancia, iniziò a piangere, urlando a squarciagola.

Ecco! Una cosa ora la poteva fare, il marmocchio. Una di quelle che non-sta-bene. Una di quelle inammissibili per un adulto con tutte le rotelle a posto: urlare a pieni polmoni nel parco, in pieno giorno, come una sirena sgangherata.

Qualcuno avrebbe dovuto prendere a schiaffi anche lui. Sì, forse sarebbe stato meglio. E non per farlo stare zitto. No. Ma per svegliarlo, maledizione! Gonfiargli la faccia fino a che si fosse deciso a smettere di fidarsi della gente e a tirare dritto per la propria strada, senza curarsi di nessuno e senza affezionarsi.

Era da un dì che avrebbe dovuto capire le intenzioni di Giulia. Invece no, sempre a offrire il beneficio del dubbio, lui, pure al peggiore dei farabutti.

Se solo fosse stato più smaliziato, avrebbe intuito subito cosa stava per fare quella stronza, e appena era entrata nella dispensa sarebbe dovuto uscire fuori all’istante. Lui a torso nudo e la moglie del capo, in quello spazio angusto, era una situazione oltre che imbarazzante, sbagliata. Decisamente. Assolutamente. Maledettamente sbagliata e da cambiare senza indugio.

Invece, anziché schizzare fuori da lì come se fosse appena divampato un incendio, cosa che era certo stesse per accadere - quel tipo di incendio che per estinguerlo non serve un estintore - era rimasto immobile a fissarla, mentre si richiudeva la porta alle spalle e gli si avvicinava con passo lento e lo sguardo malizioso.

Aveva provato ad aprire bocca per scusarsi. Scusarsi di cosa, poi? Manco fosse sua la colpa di ciò che stava accadendo. Per una manciata di secondi si era ritrovato persino a dubitare che fosse stato lui a entrare dopo di lei. Forse era giù in fondo, dietro lo scaffale della pasta, per questo non l’aveva vista né sentita.

Cazzate! Tutte Cazzate! Giulia era appena entrata e stava chiudendo la porta. Cazzo!

Teneva ancora stretta tra le mani la casacca da cuoco che avrebbe dovuto indossare. Stava per dirle di farlo passare, ché avrebbe continuato a vestirsi fuori, ma lei si era portata l’indice davanti alla bocca, facendogli cenno di stare zitto, e quando lo aveva raggiunto gli aveva tolto la casacca dalle mani gettandola sui sacchi di farina.

Il respiro, il cuore, il cervello: erano andati tutti in standby. Se lo avessero punto con uno spillo, probabilmente non sarebbe uscita una goccia di sangue. Una statua di marmo, ecco come si era sentito, di quelle che la gente passa e sfiora con le dita, forse pensando di poterle animare con il loro tocco.

Giulia gli aveva poggiato i palmi aperti sul torace e aveva iniziato a muoverli su e giù lentamente, seguendoli con lo sguardo. Era come se con le mani stesse modellando i suoi muscoli. Di tanto in tanto le unghie laccate di rosa gli avevano graffiato la pelle, dandogli come piccole scosse di corrente. Poi era stata la volta delle labbra. Lo aveva marchiato ovunque con baci roventi, che man mano avevano demolito il suo autocontrollo.

Dall’alto del suo metro e ottantaquattro aveva osservato la sommità del capo di lei che scivolava sempre più giù, fino a raggiungere la cintura dei jeans. Aveva avvertito le dita forzare il bottone dell’asola, poi tra indice e pollice la cerniera era scesa in un rumore che aveva sovrastato quello proveniente dalla cucina.

Appena si era piegata sulle ginocchia, tirandogli giù pantaloni e boxer, si era sentito perso. Aveva chiuso gli occhi e pregato che fosse un sogno, una fantasia oscena partorita solo per masturbarsi.

Una voce nella testa gli urlava di fermarla, ché era tutto sbagliato. Ma si sentiva sospeso in una dimensione senza tempo né confini, quasi si fosse estraniato da se stesso, divenendo un osservatore impotente. E appena aveva sentito le labbra di lei sfiorargli la punta serica del sesso, seguite subito dopo dalla lingua, un brivido caldo lo aveva risvegliato dall’improvvisa paralisi. Il corpo aveva continuato a rimanere immobile, tranne quella parte che seguiva non la ragionevolezza, ma solo gli ormoni, l’istinto, il piacere, e che si era animata in risposta alla tacita promessa che gli veniva fatta. 

Il buon senso? Al diavolo.

La correttezza? Al diavolo pure quella.

L’amicizia? L’onestà? Tutte parole. Solo parole vuote, senza significato. In quel momento c’erano solo la bocca e la lingua di Giulia che lo stavano facendo impazzire. Tutto in lui stava di nuovo fluendo libero: il sangue, l’eccitazione, il desiderio…

E all’improvviso anche i neuroni.

Aveva strizzato gli occhi, cercando di concentrarsi su altro che non fosse solo quella maledetta lingua.

Che cazzo stava facendo? Doveva smetterla subito! Subito! Darci un taglio immediatamente, anche se l’eccitazione gli toglieva la forza per attuare qualsiasi resistenza.

Aveva atteso qualche minuto in quell’inferno di piacere e colpa, di desiderio e lealtà, e quando li aveva riaperti, tutto era stato più chiaro. Sapeva cosa doveva fare.

«Fanculo!» aveva sibilato tra i denti, prima di afferrarla sotto le braccia e sollevarla di colpo.

In un unico movimento, si era girato pressandola contro il muro. Lei gli aveva sorriso mentre tentava di sporgersi in avanti per baciarlo in bocca. Tentativo che lui aveva bloccato sul nascere, prendendole i polsi e tirandoli verso l’alto.

 Ma all’improvviso la porta si era spalancata e lui si era raggelato all’istante. Fosse campato cent’anni, non avrebbe mai dimenticato lo sguardo ferito e deluso di Alessio, mentre li fissava con gli occhi sbarrati. Era stato come se gli avessero ficcato un coltello in pieno petto, aprendolo poi in due. Non si era accorto neppure che Giulia stava tentando di liberarsi dalla sua stretta ferrea, finché lei stessa non gli aveva gridato di lasciarla colpendolo con un calcio in uno stinco.

Era stata questione di una manciata di secondi. Alessio gli si era avventato contro strappandolo via da lei. E subito dopo lo aveva colpito con un pugno in piena faccia.

Avrebbe voluto spiegare, dirgli che non era affatto come sembrava, ma le parole gli erano rimaste bloccate in gola. Aveva la sensazione che sarebbero state del tutto inutili. Il suo capo avrebbe scartato a priori l’idea che la cara mogliettina fosse entrata nella dispensa per sedurlo, e che lui si stava solo opponendo, proprio in virtù dell’affetto e della riconoscenza che provava nei suoi confronti. Tra l’altro, nessuno con un minimo di intelligenza avrebbe mai creduto che lui era in quella posizione - con i jeans e i boxer calati quasi a metà coscia - per respingerla e non per scoparsela, tanto più che l’erezione gigantesca che gli era montata era inequivocabile e ben visibile.

Alessio si era trasformato immediatamente in un pugile professionista in seduta di allenamento, e il punching ball era la sua faccia contro cui sferrava un colpo dietro l’altro. Con le braghe calate non poteva neppure indietreggiare senza il pericolo di cadere. Difendersi senza contrattaccare era stato doloroso e difficile, mentre cercava di rivestirsi. Per fortuna il fisico allenato e statuario, rispetto a quello mingherlino del suo mentore, lo avevano aiutato a limitare i danni.

Nel frattempo Giulia aveva avuto il buon senso e la furbizia di scappare via piangendo.

«Prendi la tua roba e vattene! Non voglio più vederti,» gli aveva urlato Alessio, a un certo punto, spintonandolo.

Evan si era passato il dorso della mano sulla bocca per togliersi il sapore disgustoso di ferro. Non si rendeva conto se il sangue stesse uscendo dal naso o dal labbro inferiore, che bruciava come il fuoco.

Non c’era proprio niente da dire e men che meno da fare. Quindi aveva afferrato lo zaino dal ripiano dello scaffale dove tenevano le farine speciali, e si era avviato verso la porta, ma non prima di aver guardato un’ultima volta l’uomo che aveva sempre ammirato e rispettato. Stava perdendo non solo il lavoro, ma anche il maestro che lo aveva formato e fatto crescere professionalmente.

Maledizione! Ma lui non aveva fatto niente! Aveva aperto la bocca per dirglielo, ma l’altro lo aveva anticipato. «Sei un bastardo! Ti ho accolto come un fratello. Mi fidavo di te. E mentre ti insegnavo i segreti del mestiere, tu ti scopavi mia moglie.»

Aveva serrato la mascella e stretto forte i pugni. No, non poteva dirgli come erano andate veramente le cose. Non voleva ferirlo. Non voleva ferire nessuno, neppure Giulia. Perciò si era voltato ed era uscito dalla dispensa.

A torso nudo e con il sangue che gli gocciolava sul petto, aveva attraversato la cucina a passo indolente e con le spalle curve. Non doveva essere un bello spettacolo, ma si sarebbe rivestito in macchina. No, non poteva farlo lì, davanti agli sguardi increduli dei colleghi che avevano sentito tutto. Era certo che più tardi si sarebbero scambiati le loro considerazioni mentre preparavano le comande, lontani dalle orecchie del capo.

“Evan si scopa Giulia?”

“Ma certo, ché non lo sapevi?”

“Ma che dici? Evan non lo farebbe mai.”

“Non lo farebbe mai? Lo farebbe eccome. Anzi, lo fa. Vi fate tutti confondere da quell’aria da bravo ragazzo.”

“Evan È un bravo ragazzo!”

“Sì, come no. Un angelo con l’anima di un bastardo, ecco cos’è.”

“Sei solo invidioso.”

“Dici che allora è lei che si scopa lui?”

“Secondo me è lei che gliel’ha sbattuta in faccia.”

“È vero. Gliel’ha messa proprio su un piatto d’argento.”

“Sì, appetitosa e fumante sulla pietra lavica, gliel’ha messa. Ahahahah.”

“Dove l’ha messa l’ha messa, comunque di corna si tratta.”

“Non ditemi che non vi siete accorti di come lei lo guarda. Ogni scusa è buona per strusciarglisi addosso.”

“Sì, ma lui non l’ho mai visto darle corda.”

“Certo, non le dà corda, ma le dà qualcos’altro. Ahahaha.”

Sapeva per filo e per segno chi avrebbe detto cosa. A forza di trascorrere dodici ore sempre insieme, sei giorni a settimana, aveva imparato a conoscerli bene. E doveva ammettere che anche del cambiamento di Giulia nei suoi confronti si era accorto. Maledizione! Solo che non aveva voluto darvi peso. E ora ne pagava le conseguenze.

«Evan, ma non sei ancora pronto?»

L’ironia di Alex, il suo aiuto cuoco, gli aveva mandato il sangue al cervello. Sfogarsi su quello stronzo sarebbe stato appagante. Era certo che fosse stato lui a indirizzare Alessio nella dispensa con una scusa. Probabilmente aveva visto Giulia sgattaiolare dentro e chiudere la porta. Da questo a partorire il suo piano perverso per distruggerlo, erano passati pochi secondi.

Che Alex avesse il dente avvelenato con lui era cosa nota a tutti. E anche che volesse estrometterlo per prendere il suo posto di chef. Da quando quel bastardo era arrivato, cinque mesi prima, le provocazioni verbali erano state all’ordine del giorno, ma Evan aveva sempre lasciato correre. Non era tipo da rissa, né da litigi, lui. Tuttavia un bel calcio nel culo, a quel vigliacco glielo avrebbe proprio assestato, in quel momento. Un calcio così forte da farlo rimbalzare contro il soffitto e togliergli per sempre quel ghigno soddisfatto dalle labbra.

«Oggi non lavoro», gli aveva risposto velenoso, fissando lo sguardo a terra e stringendo i pugni lungo i fianchi.

***

Maledizione! Colpì la panchina a mano aperta. Rabbia e risentimento gli ruggivano nelle vene chiedendo giustizia. Il dolore fu lancinante e riverberò lungo tutto il braccio. Non bastava come Alessio gli aveva ridotto la faccia? Adesso si sarebbe pure massacrato le mani da solo.

Un’anziana donna gli passò davanti, tirando al guinzaglio un bastardino che cercava di avvicinarglisi con la zampetta posteriore alzata. Ecco, pure il cane aveva capito di avere davanti un coglione, e che pisciargli addosso sarebbe stata la cosa giusta da fare.

Aveva quasi raggiunto il suo piede, quando la signora lo strattonò con forza. «Vieni, Rufus. Andiamo!»

L’animale guaì e l’anziana lo tirò via con più convinzione. Prima, però, gli regalò un’occhiata tra il riprovevole e la compassione.

Doveva fare davvero una brutta impressione conciato in quel modo. Alessio lo aveva pestato per bene. Il naso e il labbro avevano sanguinato per un bel po’, mentre vagava per le vie della città. Si era tamponato con dei fazzolettini di carta. Finiti quelli, era ricorso a un cappello di lana che teneva dentro il cassetto del cruscotto.

Dannazione! Il dolore era forte e non riusciva a capire se il naso fosse rotto. Forse sarebbe dovuto andare in ospedale. Ma quale ospedale, era giusto che soffrisse. Se lo meritava.

Infine si era deciso a fermarsi in quel parco per darsi una lavata alla faccia e schiarirsi le idee.

Imprecò ancora. Gli aveva dato anima e corpo a quel ristorante!

Diede un pugno violento sulle stecche di legno alle sue spalle. Il dolore arrivò intenso, mescolandosi all’altro che già provava. 

All’improvviso il cellulare gli vibrò nella tasca. Lo tirò fuori e, controllato il display, rifiutò la chiamata. Poi si alzò, prese lo zaino, se lo buttò sulla spalla e si avviò verso l’auto. Lo Smartphone vibrò ancora nella sua mano, con insistenza. Più guardava il display, più gli montava la rabbia.

Fece andare la suoneria ancora per parecchio, prima di decidersi a rispondere.

«Evan…»

«Che cazzo vuoi?»

«Perdonami. Non so cosa m’è preso. Davvero. Scusami… Scusami… Scusami.» Dall’altra parte Giulia parlava inframezzando le parole con singhiozzi.

Non aveva niente da dirle.

«È che sono passata davanti alla dispensa… Ti ho visto a petto nudo e… Non so cosa m’è preso… Saranno gli ormoni… Sono in ovulazione.»

Quella conversazione era assurda e ridicola. Che gliene fregava a lui della sua ovulazione? E soprattutto, che scusa del cazzo era quella?

Non resistette. «Se in fase ovulatoria non puoi fare a meno di sesso, potevi prendere tuo marito e chiuderti in bagno per una sveltina, senza mettermi nei guai.»

«È che… È colpa tua… Sei così bello, così sexy. La porta era aperta… Non ho resistito.»

Strinse i denti e fece un profondo e silenzioso respiro. Si poteva essere più patetiche? «Avevo chiuso la porta. E tu sai bene che quando la porta della dispensa è chiusa, qualcuno di noi si sta cambiando. Perciò non venire a raccontarmi stronzate.»

«A me è sembrata socchiusa. Scusami. Amo Alessio. Non sono una troia, se è quello che stai pensando. Non l’ho mai tradito. Non so cosa mi sia successo.»

«Ah, davvero? Ami tuo marito?»

«Sì, lo amo. Lo amo moltissimo e non farei mai…»

Fu preso da un impeto di rabbia. «Ma ti rendi conto di quello che dici? Ti ascolti? Cazzo! Ami tuo marito e ti sei inginocchiata davanti a me? Per cosa? Pregarmi per farti un miracolo, come si fa con i Santi? Ecco sì, sono proprio un santo.» Abbassò la voce, appena si accorse che le persone lungo il viale si giravano a guardarlo. «Avrei potuto far saltare il tuo idilliaco matrimonio, se solo avessi aperto bocca. Amo Alessio…» Le rifece il verso. «E poi prendi in bocca il cazzo di un altro, come…» Si interruppe. «Lasciamo perdere, ché è meglio.» Per quanto fosse furioso, non voleva infierire più di quanto non avesse fatto già.

All’improvviso lei smise di singhiozzare e il tono divenne gelido. «Lui non ti avrebbe mai creduto.»

Stronza! Diede un calcio a un sasso sbilenco lanciandolo lontano. «No, non mi avrebbe creduto, ma potrei inviargli questa conversazione che sto registrando, e allora…»

«Bastardo!» Fu l’ultima parola che sentì, prima che la comunicazione venisse interrotta.

«Fanculo! Sta’ a vedere che adesso lo stronzo sono io.» Ricacciò il cellulare nella tasca con rabbia. «Non tutti gli uomini nascono stronzi, molti ci diventano a forza di ricevere delusioni dalle donne,» disse a voce alta rivolgendosi a due ragazze che gli passavano accanto.

Le due lo guardarono con un sorriso timoroso e accelerarono il passo.

E lui ne aveva già avuta una piuttosto cocente di delusione. Era passato un anno e ancora non l’aveva digerita.

«A un certo punto, uno deve pur difendersi, no?»

Decise che da quel momento in poi si sarebbe comportato da autentico stronzo bastardo.

Mentre apriva la portiera si arrestò. «Accidenti! Proprio una fantastica giornata.»

Aveva rimediato anche una multa per divieto di sosta. La tolse da sotto i tergicristalli e se la mise in tasca. Poi salì gettando lo zaino sul sedile di fianco. Poggiò mani e fronte sul volante e respirò a fondo per qualche minuto. Poi accese il motore e si avviò verso l’unico posto in grado di restituirgli serenità.

Acquista ora

  • Amazon
bottom of page