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Flame vol.1

1. Luca

 

«Allora? Che ne dici?»

Sbuffai contrariato, mentre controllavo l’orologio affisso sulla parete sopra la finestra. Segnava le venti e quindici. Brandon sarebbe passato a prendermi con la sua Ford Mustang coupé rossa tra poco più di mezz’ora. Quella macchina era un mostro di potenza. Cento chilometri orari in quattro secondi e poi via, schizzava a trecento come niente.

«Vedrai, sarà divertente.»

Fanculo. Io, invece, dovevo accontentarmi di un vecchio pick-up con le fiancate graffiate e il motore che ronfava come un gatto influenzato. Eh, ma appena possibile me ne sarei comprata una anch’io; la volevo nera, sì, nera con i cerchi argento lucido.

Certo, come no? Io voglio… Il mio volere non contava un cazzo di niente, come in quel momento, per esempio. Non vedevo l’ora di alzarmi da tavola, invece ero ancora incollato a quella sedia a infilzare pezzi di pollo nel piatto, manco la forchetta fosse un tridente. Andavo matto per il pollo al forno con le patate, ma mia madre quella sera me lo stava mandando di traverso. Mi aveva appena annunciato che tra un mese sarebbe dovuta andare a Roma. Non avevo ben afferrato il perché, ma mi era molto chiaro il motivo per cui aveva cucinato il mio piatto preferito; un tentativo di prendermi per la gola e farmi mandare giù il fatto che avrei dovuto accompagnarla. Me lo aveva posto come un invito, ma in realtà era già un dato di fatto, avevano già deciso loro per me. Il peggio era che saremmo dovuti rimanere in Italia per più di un mese e non ci trovavo proprio niente di divertente. No, assolutamente no. Non se ne parlava. Non ci sarei andato.

Masticai rabbioso un pezzo di coscia, mandandolo giù senza nemmeno gustarlo.

«Perché non vai con papà?» La voce venne fuori rauca, mentre cercavo di controllare la frustrazione crescente.

Lei mi offrì altre patate che rifiutai con un cenno della testa, anche perché patate e pollo ormai avevano il sapore del fiele.

«Uno di noi due deve rimanere al ristorante. Lo sai.»

Mi parlava in modo suasivo, e la cosa non mi piaceva affatto; usava sempre quel tono quando voleva convincermi a fare qualcosa che detestavo.

«Abbiamo fatto tanto per arrivare fin qui. Mancare per più di un mese significherebbe rischiare molto. Non possiamo lasciare la nostra attività in mano a degli estranei. Se non curi tu…»

Appoggiai la forchetta sul piatto e mi tappai le orecchie; era davvero estenuante. Non ce la facevo più ad ascoltarla. Poi di colpo calai il palmo della mano sul tavolo, sfogando la tensione che mi stava opprimendo.

«Maledizione! Non sono degli estranei. Lavorano per voi da almeno quindici anni. Se non potete fidarvi dei vostri dipendenti, allora è meglio che li licenziate. Non capisco perché siete sempre così dannatamente diffidenti.»

Mio padre, che finora aveva mantenuto il silenzio, intervenne con voce imperiosa. «Adesso basta! Non rivolgerti con questo tono a tua madre.»

Abbassai immediatamente gli occhi sul piatto per non fulminarlo con lo sguardo. Lo odiavo; era capace solo ad abbaiare ordini, e noi dovevamo obbedire senza discutere, altrimenti, «Quella è la porta» era la sua frase preferita.

Prima o poi l’avrei fatto per davvero, me ne sarei andato via da quella casa per sempre; mi sarei cercato un lavoro e avrei vissuto come volevo, lontano dalle sue regole spacca coglioni. Gli avrei dimostrato di avere le palle per badare a me stesso; non avevo bisogno del suo aiuto. In quel momento, però, mi conveniva masticare bile e stare zitto, mentre lo stomaco si rigirava sottosopra per la rabbia.

Dannazione, avevo già fatto dei progetti per quell’estate, niente esami all’università, nessuna pallosa lezione di economia da seguire, solo tanto divertimento. Di giorno sarei andato a nuotare e a fare flyboarding in qualche lago, oppure a pesca col signor Bennett, il padre di Chris. Mi divertivo un sacco con quell’uomo – mi faceva morire dal ridere con le sue battute sarcastiche sul sesso e sulle donne – ma soprattutto era un pescatore esperto; conosceva il lago come le sue tasche; sapeva dove si annidavano i pesci più grandi e come attirarli con esche perfette. Di sera, invece, mi sarei incontrato con i miei amici in qualche locale per chiacchierare, bere birra e fare cazzate che, a detta di mio padre, era quello che mi riusciva meglio. Oltre a tutto ciò avrei fatto anche tanto sesso, tanto fantastico, stratosferico sesso.

Infilzai uno spicchio di patata con tale ferocia che sembrava volessi trucidarlo, ma dovevo pur sfogarmi, altrimenti avrei dato fuori di matto.

La forchetta stridette sul fondo del piatto, prima di portarmela alla bocca. Ingoiai il pezzo senza masticarlo, tanto niente aveva più sapore, anzi, faceva schifo. La mia vita faceva schifo. Vivere in quella casa col vecchio era uno schifo. Fanculo!

In verità c’era anche un altro fatto che mi mandava in bestia. Se fossi andato a Roma avrei dovuto dire addio ad Alyssa, perché di sicuro in un mese e mezzo si sarebbe cercata qualcun altro con cui scopare. E rinunciare a lei era la parte più dura di tutta la storia.

Avevo iniziato a frequentarla da appena tre settimane. Ci incontravamo tutti i lunedì, mercoledì e venerdì verso le dieci e trenta di sera e ci davamo dentro come ricci. Brandon, naturalmente, non ne era a conoscenza. Se avesse saputo che mi sbattevo sua sorella, mi avrebbe ammazzato e poi avrebbe fatto di me polpette per il suo cane, proprio come avrei fatto io, se si fosse trattato di Giulia. Ma l’istinto di protezione nei confronti di mia sorella era comprensibile, Giulia aveva sedici anni ed era una ragazzina senza esperienza; Alyssa, invece, ne aveva ventidue, quasi ventitré – li avrebbe compiuti tra quattro mesi – e di esperienza ne aveva da vendere. Scommetto che neppure se lo ricordava il primo che si era dato da fare tra le sue gambe. Comunque, per me non era affatto un problema, che ne avesse avuto uno o mille, di ragazzi, non aveva importanza, bastava che facesse divertire anche me. Sesso senza impegno, era tutto ciò che cercavo.

In ogni caso, anche se con lei avessi voluto fare sul serio, Brandon non mi avrebbe mai creduto; era dell’opinione che sia io che Chris passassimo da una ragazza all’altra con la stessa frequenza con la quale ci cambiavamo le mutande. Il solito esagerato; così spesso no, ma di certo non eravamo propensi a mettere radici.

E che diamine! Chi avrebbe voluto accasarsi a diciannove anni? Tra l’altro, anche Alyssa aveva solo voglia di divertirsi, e in quel periodo era con me che voleva farlo; quindi, ci davamo dentro di brutto senza tutte quelle cazzate sentimentali. L’accordo era che ciascuno di noi poteva frequentare e fare sesso anche con altre persone, senza vincoli o scenate di gelosia, ma in verità da quando stavo con lei non mi ero visto con nessun’altra. E come avrei potuto? Oltre all’uccello, Alyssa mi succhiava via tutte le energie. Ogni volta che stavamo insieme, dopo me ne tornavo a casa completamente spompato; diceva che non le bastavo mai. E nemmeno a me, l’avrei scopata sempre, tutti i giorni e a tutte le ore. Tuttavia dovevo accontentarmi di tre volte a settimana; purtroppo era solo nei giorni dispari che riusciva a svincolarsi dal suo ragazzo, dato che lui andava a dormire presto per via degli allenamenti di rugby del giorno dopo. Sì, dovevo dividerla col suo ragazzo, ma chi se ne fregava. Ve l’ho detto, il sesso con lei era fantastico e questo mi bastava.

***

Conoscevo Brandon e Alyssa da una vita. Eravamo stati vicini di casa per sedici anni, finché i loro genitori non avevano acquistato una villa a diversi isolati dalla nostra. Da piccola era una bambina noiosa e insignificante, con la tendenza a frignare ogni volta che qualcuno o qualcosa si frapponeva tra lei e i suoi desideri; capricciosa al punto che spesso, io e Brandon, la chiudevamo in camera sua quando pretendeva di voler giocare con noi. In realtà, avremmo anche potuto lasciarglielo fare, ma il fatto è che voleva comandare sempre lei. Lei decideva tutto, e se ti azzardavi a contraddirla, scoppiava in un pianto che ti forava il cervello. Insomma, era stata una vera palla al piede, finché non mi ero accorto che l’exploit ormonale dell’adolescenza l’aveva trasformata in una bomba sexy. Allora, dall’evitarla come la peste ero passato a guardarla come un cane digiuno guarda il bancone del macellaio, e la stronza ne aveva approfittato per vendicarsi. Eccome se l’aveva fatto, mi aveva privato di ogni volontà e raziocinio. Ogni volta che la vedevo, non capivo più niente; il sangue mi ribolliva nelle vene e andava a concentrarsi tutto tra le gambe.

Era stata lei a cominciare. Appena si era accorta che avevo iniziato a fissarla come un maniaco sessuale, ogni volta che me ne capitava l’occasione, si era trasformata in una stronzetta tutta sorrisini, ammiccamenti e doppi sensi. Io facevo finta di non capire. Era pur sempre la sorella di Brandon, il mio migliore amico, quindi, off limits. Guardare – nemmeno troppo – e non toccare. Il pensiero però, quello non potevo controllarlo; perciò, quando nel mio letto, la sera, ripensavo alle sue cosce tornite che spuntavano da sotto la minuscola minigonna e alle tette grosse e sode, mi montava un’erezione tale da dovermelo, poi, menare furiosamente per riuscire a togliermela dalla mente, almeno fino alla fantasia successiva. Era davvero difficile resisterle, mi attirava come un magnete; nell’istante in cui entrava nel mio campo visivo, il cervello smetteva di ragionare, e cominciavo a immaginare di toccarla in mille modi diversi.

All’inizio mi ero limitato solo a fantasticare; mi erano venuti i calli alla mano a forza di segarmi. Poi, una sera, tutto cambiò.

Ero seduto sul divano del loro soggiorno, guardando la TV mentre aspettavo che Brandon mi raggiungesse. Lei aveva preso posto accanto a me; il calore delle sue cosce nude aveva attraversato il denim dei jeans, bruciandomi come se fosse fuoco. Indossava una delle sue solite minigonne francobollo che avrebbero dovuto vietare, maledizione! Erano un vero e proprio attentato alla pace e serenità di qualunque adolescente maschio etero che annegava nel testosterone.

Con la coda dell’occhio avevo sbirciato senza osare girarmi. Era troppo vicina, pericolosamente vicina. A un tratto, senza dire una parola, mi aveva posato la mano sulla patta dei pantaloni e aveva iniziato ad accarezzarmi. Ero rimasto di sasso, lo shock mi aveva bloccato il respiro e avevo cominciato a sudare. Se fossero entrati Brandon o sua madre e l’avessero vista smanettarmi l’uccello, sarebbe scoppiato un putiferio. 

«È stata lei. Io manco me ne sono accorto.» Ecco, avrei potuto dire così, oppure fingermi svenuto.

Quante stronzate, che me ne fossi accorto era evidentissimo dal consistente rigonfiamento nelle mutande. Piuttosto, avrei dovuto fermare la sua dannata mano. Invece no, in quel momento la desideravo proprio attorno all’asta; una bella presa, salda e forte, e poi su e giù, fino a schizzare.

Non mi ero mosso di un millimetro. Avevo continuato a fissare lo schermo della TV come se avessi il collo ingessato, ma, con la coda dell’occhio avevo continuato a tenere sotto controllo la porta. Intanto, l’erezione montava sotto quelle carezze sfacciate, e il cuore accelerava verso la promessa di un sogno che stava per realizzarsi, il mio uccello tra le mani di Alyssa.

«Non preoccuparti, i miei sono fuori e Brandon ci mette sempre tanto a prepararsi. Abbiamo tutto il tempo.»

Avevo deglutito due o tre volte. Tutto il tempo, per fare cosa? Pretendeva forse di rassicurarmi con quella vocetta da finta innocentina? Che stronza! In realtà stava eccitando in modo esagerato la bestia che albergava nei miei pantaloni, rendendomi ancora più nervoso. Non potevo credere che avesse davvero intenzione di prenderlo in mano. A quest’ultimo pensiero, la bestia aveva guizzato sotto le sue dita e lei aveva sorriso con malizia.

«Voglio vederlo…» Quella sfacciata aveva ammiccato verso l’inguine. «Callie dice che ce l’hai grosso e che lo sai usare molto bene.»

Avevo deglutito ancora, ormai mi era rimasta poca saliva in bocca. Sfido voi, a stare a un passo dal vostro sogno proibito e restare paciosi e tranquilli come un bimbo dopo la poppata.

Poppata. Poppe. Le poppe di Alyssa. Dio, se solo avessi mosso il braccio le avrei sfiorate; mi stava così vicina.

«Dice che l’hai fatta venire tre volte, ma io non le credo. Callie tende sempre a esagerare. Non so neppure se sia vero che te la sei scopata… O che ce l’hai grosso,» aveva aggiunto, strizzando l’occhio e dando anche una strizzatina all’uccello.

La sua voce era tipo una nenia che cullava le mie fantasie su quelle poppe che mi stavano a pochi centimetri dalle mani.

«Ti ricordi di Callie, vero?» aveva domandato all’improvviso.

Callie? Chi accidenti era, Callie? Non conoscevo nessuna Callie, non mi ricordavo di aver fatto vedere il cazzo a qualcuna con quel nome. In verità, in quel momento avevo difficoltà anche a ricordare il mio, di nome. 

«Il compleanno di Jimmy, ricordi?»

«Jimmy…» avevo sussurrato con un filo di voce. 

Tutti i neuroni erano entrati in sciopero; mi sentivo un emerito deficiente. Possibile che una ragazza mi facesse l’effetto di una lobotomia? Cristo santo, parevo uno di quei perdenti che non avevano mai visto una fica.

Poi, tutt’a un tratto mi ero ricordato di Jimmy, amico di un amico, della festa nella villa sul lago e di una moretta con i capelli corti che mi si era strusciata addosso per tutta la sera e che, a un certo punto, avevo trascinato in una camera al piano di sopra. Ci sapeva fare la ragazza, sapeva bene come stuzzicarmi e farmi impazzire. C’eravamo rotolati tra le lenzuola per più di un’ora, infine mi ero rivestito e me ne ero andato con un semplice: «Ciao, ci si vede in giro…»

«Callie, mi chiamo Callie,» aveva detto lei, mentre si allacciava il reggiseno.

«Sì, ci vediamo, Callie.»

Poi Alyssa mi si era avvicinata all’orecchio e, come se il gesto fosse casuale – ma per me lo aveva fatto apposta – mi aveva sfiorato il braccio con il seno, e fu come se fossi stato toccato da un filo elettrico scoperto. La scossa si era propagata per tutto il corpo e aveva scaricato proprio su quel bastardello nelle mutande, che era impaziente di diventare protagonista.

«Voglio prendertelo in bocca e succhiartelo fino all’ultima goccia.»

Per tutti i santi del Paradiso! Mi ero aggrappato al divano, stringendolo con le dita. Avevo la sensazione che la testa girasse; la gola mi si era seccata completamente e il sangue, abbandonato del tutto il cervello, pulsava impazzito in quell’unica parte del corpo.

«Vieni domani sera, alle ventidue e trenta, al Crown. Ti aspetto nel parcheggio.»

«Il Crown… Sì, va… bene,» avevo farfugliato sottovoce.

Non sapevo neppure dove fosse quel diavolo di locale, ma mi sarei messo a cercarlo appena uscito da lì, a costo di girare tutta la notte per la città; anzi, non appena lo avessi trovato, mi sarei fermato lì ad aspettare fino all’indomani sera.

***

E ora mia madre pretendeva che mi allontanassi da Alyssa per più di un mese? No, non se ne parlava proprio, nella maniera più assoluta.

«Perché non ti fai accompagnare da Claudio o da Giulia? Oppure da tutti e due?» proposi speranzoso.

«Tuo fratello è troppo piccolo, e tua sorella ha già prenotato il camping con la scuola.»

E certo, avevano tutti una scusante, tutti tranne il primogenito. Da me ci si aspettava e si pretendeva di più, e la cosa iniziava a pesarmi sul serio.

«Dai, non sarà poi così male. Non sei curioso di visitare la Città Eterna?»

Ero più curioso di scoprire come sarebbe stato leccare la fica di Alyssa bagnata di birra. Mandai giù un altro pezzo di pollo che all’improvviso sapeva di segatura, e iniziai a battere sul tavolo con la parte posteriore della forchetta. Perché diavolo dovevo andare a Roma proprio in estate? Non sarebbe stato meglio in inverno? Così magari avrei saltato anche gli allenamenti e mi sarei preso una pausa dall’Università. «Perché non ci vai…»

«Ora basta!» Mio padre si alzò di scatto, e allo stesso tempo con il pugno colpì il tavolo così forte da far rimbalzare piatti e posate.

I miei fratelli, muti, chinarono il capo smettendo di mangiare; ebbi l’impressione che stessero addirittura trattenendo il respiro, tanto era il terrore che probabilmente stavano provando. Sapevano quanto fosse duro, il vecchio, quando si arrabbiava; non era un bello spettacolo, né vederlo fracassare oggetti, né ascoltarlo inveire con un linguaggio offensivo e irriverente che faceva male all’anima.

«Andrai con tua madre, e senza fiatare! Non puoi pensare sempre e solo ai cazzi tuoi. È ora che la finisci di fare il rammollito!»  Sbatté i palmi sul ripiano e lì li lasciò, mentre protendeva il busto verso di me con fare minaccioso. «Non sei più un ragazzino. Io a diciannove anni lavoravo già da un pezzo. Tu, invece, che cazzo fai? Pensi solo a divertirti. È ora che cominci ad assumerti le tue responsabilità. Anzi…» Calò un altro pugno sul tavolo e imprecò. Giulia e Claudio chinarono ancora di più il capo. «Quando tornerai da Roma mi aiuterai in azienda. Studierai e lavorerai. Devi finirla di perdere tempo con quelle mezze seghe dei tuoi amici.»

Non volava una mosca. Anche mia madre si era messa in standby; aspettò alcuni secondi prima di avvicinarglisi, quindi gli poggiò una mano sulla spalla. «Giovanni, calmati. Sai che ti fa male agitarti.» 

Altro pugno sul tavolo. Il bicchiere sobbalzò e il vino rosso schizzò macchiando la tovaglia grigio perla. «Non dirmi di calmarmi, perdio! Ne ho le palle piene. Ho tre figli rincoglioniti. Tre parassiti. Tre invertebrati. Non posso contare su nessuno di loro. Godono solo dei profitti delle mie fatiche. Ma non ho più intenzione di farmi il culo per voi. Capito?» gridò, guardandoci uno per uno.

Ormai era andato, il disprezzo e il disappunto erano evidenti nel tono e in ogni parola pronunciata. La vena sulla tempia gli pulsava in modo impressionante e il labbro inferiore tremava; era fuori di sé, tanto per cambiare.

Un carattere difficile da gestire e da sopportare, il vecchio; solo mia madre, con la sua pazienza, poteva tollerare la convivenza con un uomo simile. Era freddo, glaciale, certe volte dubitavo perfino che avesse un cuore. In diciannove anni non ricordavo un gesto d’affetto, che so, una carezza, un bacio, un elogio.  Non ci aveva mai picchiati, ma con le parole ci feriva e ci umiliava in continuazione, soprattutto il sottoscritto. Aveva iniziato presto a trattarmi con durezza e disprezzo. Per quanto mi sforzassi, per lui non ero mai abbastanza. «Ti farò diventare un vero uomo», questa era la frase che mi ripeteva in continuazione da bambino quando, dopo aver fatto i compiti, mi faceva salire sulla sedia per aiutare il lavapiatti del ristorante. Invece, col tempo, ero diventato solo uno stronzo strafottente e irresponsabile. Nel corso degli anni, mi ero costruito una maschera di freddezza e arroganza; avevo imparato a non fargli capire quanto mi ferissero le sue parole di biasimo e i suoi sguardi sprezzanti, e quando non potevo più trattenermi gli rispondevo a tono, come in quel momento. La mia lingua era impaziente di mortificarlo, distruggerlo, ma non volevo litigare, non davanti a Giulia e a Claudio. Le discussioni tra noi erano sempre cariche di tensione. Prima o poi avremmo finito per venire alle mani; in tal caso non volevo che ciò accadesse dinanzi a mio fratello e a mia sorella; perciò era meglio chiuderla lì.

Mi alzai di scatto, facendo cadere la sedia, e mi avviai verso la scalinata.

«Dove cazzo vai? Non ti ho dato il permesso di alzarti.»

Certo, il suo permesso, manco avessi ancora sei anni; ma io me ne sbattevo del suo permesso, perciò continuai a camminare nella più completa indifferenza.

«Non permetterti di voltarmi le spalle mentre ti parlo. Hai capito? Torna qui, immediatamente!» Gridava come un ossesso.

Intanto salivo i gradini uno dopo l’altro con molta calma, sperando che la sua rabbia crescesse fino a fargli scoppiare le coronarie, così almeno si sarebbe tolto di mezzo una volta per tutte.

«Tesoro, calmati.»

«Come faccio a stare calmo? È un maleducato. Un debosciato. È ora che diventi un uomo. Santo dio, tra un po’ toccherà a lui prendere in mano le redini dell’azienda. Mi sono fatto in quattro per creare tutto questo.»

Piegai le labbra in un ghigno. Lui era l’unico a lavorare, il solo a farsi il culo. Che patetico egoista. E mamma, allora? Lo aveva aiutato nei ristoranti e in più aveva tirato su tre figli, mandando anche avanti una casa. Lei non aveva fatto niente? Eh no, aveva fatto tutto lui, l’imprenditore dei miei coglioni.

«Tu, piuttosto, a forza di trattarlo con dolcezza lo hai rovinato. Alla sua età, io mi mantenevo già da solo. Ero già un uomo, non un imbecille rammollito. Un buo…»

Ero giunto sull’ultimo gradino. Lo colpii con un calcio, prima di salirci sopra; quindi, mi affrettai a raggiungere la mia stanza, mentre lui iniziava con la raffica di aggettivi edificanti: buono a nulla, rammollito, parassita, fallito, senza palle, viziato…  Ogni parola era una stilettata al petto, eppure sorridevo. Quello stronzo non aveva idea di come tutto ciò mi fortificasse, di quanta carica mi desse. Avevo giurato da tempo che mi sarei impegnato anima e corpo per dimostrargli quanto si sbagliasse su di me. Avrei avuto successo e senza il suo aiuto. Non volevo niente da lui.

Mi sbattei la porta alle spalle e mi tuffai sul letto. Nascosi il capo sotto il cuscino, ma le loro voci continuarono a giungermi attutite e cariche di tensione; allora lo afferrai e lo lanciai contro la parete di fronte. Non lo sopportavo. Quando faceva così, lo odiavo con tutta l’anima. Avrei voluto non essere suo figlio.

Mi tirai su a sedere, appoggiandomi alla spalliera, poi accesi la TV e cominciai a fare zapping. All’improvviso sentii sbattere la porta d’ingresso, l’aveva richiusa con una violenza tale da far tremare i vetri della finestra. Abbassai del tutto il volume. In casa regnava il silenzio assoluto, finalmente. Che se ne andasse pure al diavolo, accidenti a lui!

Cambiai canale; mi fermai su un documentario di animali. Un rinoceronte combatteva contro un bufalo. Tenni lo sguardo fisso sullo schermo, stritolando il telecomando ogni volta che il rinoceronte colpiva l’avversario lacerandogli la carne con il corno. Più il mammifero colpiva, più sentivo ruggire la rabbia dentro il petto e stringevo le dita, finché udii uno scricchiolio. Allentai subito la presa e lasciai cadere il telecomando sul letto, prima di disintegrarlo. Nessun altro aveva il potere di destabilizzarmi quanto il mio vecchio. Quegli scontri verbali mi lasciavano sempre l’amaro in bocca. Anziché desiderare di essere un ragazzo migliore, mi veniva voglia di dare il peggio di me.

Dopo qualche minuto mia madre aprì la porta della camera, spingendola con titubanza. «Posso entrare?»

Non le risposi; ripresi a fare zapping, pigiando sui tasti con furia.

Si avvicinò e si sedette ai piedi del letto. «Mi dispiace, tesoro. È tutta colpa mia.»

Iniziò ad accarezzarmi la gamba. «Il fatto è che zia Adele mi ha citata nel testamento con altri cugini. Non aveva figli, poverina, così ha lasciato la fattoria e i terreni a noi quattro. È per questo che devo andare.»

Non riuscivo a guardarla in faccia; ero arrabbiato anche con lei. Perché diavolo non si ribellava mai? Era a lui che le dava tutte vinte, non a me. Perché non lo mandava all’inferno, invece?

«Non dici niente?»

Mi si accartocciava lo stomaco a sentire il suo tono triste. Mi dispiaceva così tanto che dovesse vivere vicino a quell’orco.

«No, mamma, non è colpa tua. È lui che non misura mai le parole.» Mi morsi il labbro, cercando di controllarmi. Se solo mi fossi lasciato andare, le avrei detto tutto quello che pensavo di quel bastardo e l’avrei sicuramente fatta piangere. «Non capisco proprio come fai a sopportarlo.»

Si sporse verso di me e mi sfiorò la guancia con una leggera carezza. «Perdonalo, tesoro. Lo sai, non ha avuto una vita…»

Voltai la testa di scatto per allontanarmi. «Mamma, ti prego, non iniziare con la storia che il nonno lo massacrava di botte senza una ragione valida, perché la cosa non lo giustifica. Proprio perché suo padre è stato una bestia, lui dovrebbe sforzarsi di essere migliore.»

«Ma non vi ha mai picchiati,» mi apostrofò, risentita.

Sollevai gli occhi al soffitto e scoppiai in una risata amara. «Perché? Pensi che le parole, gli sguardi, gli atteggiamenti non facciano male al pari di schiaffi o pugni?»

Abbassò gli occhi e lisciò una grinza sul copriletto, poi tornò a fissarmi, e la tristezza che vidi nel suo sguardo mi stritolò il cuore.

«Hai ragione, ma ultimamente è davvero molto stressato. Sai che sta poco bene. È preoccupato per la sua salute e per la nostra azienda. Se le sue condizioni fisiche dovessero peggiorare, saremmo davvero nei guai. Nessuno è in grado, al momento, di prendere il suo posto.»

Quindi, secondo lei l’attacco di angina, che aveva avuto l’anno precedente, avrebbe dovuto essere un buon motivo per perdonarlo?

«I problemi di salute non c’entrano col suo carattere di merda. È così da sempre.» Pronunciai quelle parole con tutto il veleno che avevo accumulato.

Lei lasciò uscire un lungo sospiro di rassegnazione e io presi a tormentare il telecomando, battendolo sul materasso con brevi colpetti.

«Non è giusto che parli di lui in questo modo. È un uomo molto duro, ma non vi ha mai fatto mancare nulla.»

Avrei voluto dirle che i soldi non erano tutto, che condurre una bella vita non era tutto, che mi erano mancate le sue carezze quando ero piccolo, mi era mancato che si sedesse vicino a me, sul tappeto, a far correre le automobiline della Polizia o che mi aiutasse a costruire la casa di legno sull’albero in giardino. Avrei voluto gridarle che non ricordavo una volta in cui mi avesse abbracciato per dirmi che era orgoglioso di me; non una volta che si fosse complimentato per i miei successi scolastici e nel rugby. Niente di niente. Ma sarebbe servito a qualcosa? No, se non a farla stare ancora più male.

Perciò le sorrisi. «In ogni caso, ti accompagno. Non sono mai stato a Roma. Dicono che sia una delle città più belle del mondo.»

A quel punto spalancò gli occhi increduli e si allungò ad abbracciarmi. «Oh, grazie, tesoro. Grazie, davvero. Vedrai, sarà una bella esperienza. Roma è una bellissima città. Ti piacerà.»

Avevo cancellato la tristezza dai suoi occhi e questo mi faceva sentire già un uomo migliore. Lei era l’unica donna che contasse davvero per me – dolce, affettuosa, comprensiva – ed era solo per lei che avrei messo da parte Alyssa e i miei progetti estivi.

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