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Gioco proibito

1.

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Con gli occhi ancora chiusi, allungò la mano sul comodino e interruppe la musica melodica, il cui volume andava via via intensificandosi.

Si stiracchiò per qualche minuto sotto le lenzuola sfatte, quindi si alzò e, dopo aver indossato la vestaglia di seta, quella viola che le arrivava a metà coscia, andò in cucina a preparare la colazione. Ma prima fece una capatina in bagno, a gettarsi acqua gelata sulla faccia.

In attesa che la moka gorgogliasse sul gas, dispose i piattini, le tazzine e i cucchiaini sul ripiano della penisola, poi, seduta sullo sgabello, aspettò che lui uscisse dalla doccia, si vestisse e andasse a berlo con lei.  

La radio accesa, sintonizzata sul notiziario mattutino, le tenne compagnia finché lui non la raggiunse. Lo guardò con stupore, mentre, in piedi, svuotava la tazzina tutta d’un fiato. Non capiva come facesse a non scottarsi la lingua, dato che era ancora bollente.

«Sono in ritardo», le disse, strizzandole l’occhio. «Ed è tutta colpa tua.»

Cristal accennò un sorriso e chinò lo sguardo sul piattino. Quindi, si alzò dallo sgabello e lo accompagnò alla porta.

Dal lunedì al venerdì, tranne nei periodi di ferie o di vacanze, ogni mattina, appena suonava la sveglia, Cristal si alzava per preparare la colazione a suo marito, e poi lo accompagnava fin sopra il patio, salutandolo con un bacio. Una sorta di rito, questo, che andava avanti da circa due anni, da quando lui l’aveva portata via dall’ambiente soffocante in cui era nata e cresciuta, dagli sguardi compassionevoli e accusatori di quella gente ipocrita e bacchettona, che bisbigliava quando la vedeva passare per strada. Con la coda dell’occhio aveva sempre colto le loro teste che si voltavano a guardarla, ammiccando alla sua persona. E sapeva benissimo cosa dicessero. Aveva dodici anni quando aveva scoperto il motivo di quei mormorii che le scarnificavano l’anima.

Una pia donna, una di quelle che andava tutte le domeniche in chiesa a battersi la mano sul petto, recitando il Confesso, aveva fatto visita a nonna Adelaide, un sabato pomeriggio. Si era presentata a casa con la scusa di doverle portare un’ambasciata importante da parte del parroco e, con atteggiamento confabulante, aveva costretto l’anziana donna ad ascoltare tutti i pettegolezzi, che la comunità parrocchiale riferiva sulla sua unica nipote. 

Cristal si era trovata a passare dinanzi alla cucina e, incuriosita da quel vocio sommesso, si era messa a orecchiare alla porta socchiusa. Le lacrime avevano iniziato a rigarle le guance, quando aveva capito, e, con le mani sul viso, era scappata in camera.

Ce l’aveva messa tutta per essere una brava ragazza, ma non era servito a nulla. Per gli abitanti di quel piccolo paese, lei aveva il marchio della peccatrice tatuato in fronte, perché tale madre, tale figlia.

Era diventata grande in mezzo a mille difficoltà, a causa di quella gente che non le aveva voluto dare alcuna chance di riscatto, ma per fortuna, ora non doveva più rendere conto a nessuno di ciò che faceva e di come fosse. Finalmente si era sposata, aveva una casa tutta sua e molto tempo a disposizione per prendersene cura. E tutto questo lo doveva ad Alberto. Era stato lui a darle una rispettabilità, e gliene sarebbe stata grata in eterno.

Cristal si sollevò sulle punte e lo baciò. Voleva essere solo un bacio veloce, di commiato, ma lui le afferrò le natiche, avvicinandola a sé. Le divorò la bocca con ferocia, come se non la vedesse da un’eternità e quelle labbra fossero la sua unica ragione di vita. Percepì il desiderio di possederla ancora, come aveva fatto appena un’ora prima. Con forza. Determinazione. L’unico traguardo: il piacere. Il proprio.

Gli passò un braccio attorno al collo e rispose a quell’assalto con altrettanta passione. Tutto durò pochi secondi, poi fu lei ad allontanarsi con un gemito di frustrazione.

«Eh, lo so. Ti piacerebbe farlo ancora, vero? Ti piace quando ti scopo. Mugoli come la gatta dei vicini quando è in calore.» 

Lui sghignazzò soddisfatto, mentre le si strusciava contro il ventre, tenendole le mani ben salde sui fianchi. Era di nuovo pronto a farla sua.

Cristal abbozzò un debole sorriso senza replicare. Se solo gli avesse detto quello che pensava, ne sarebbe nata una lite furiosa e lui sarebbe andato via, sbattendo la porta. Era già accaduto, la prima e unica volta che aveva cercato di spiegargli che gli approcci grossolani, privi di passione autentica, la facevano sentire al pari di una bambola gonfiabile su cui sfogare le proprie voglie.  

E sì che sua nonna l’aveva messa in guardia: “Le donne non chiedono. Le donne non manifestano i propri desideri in camera da letto, non sta bene. Solo le puttane lo fanno.”

 Cristal però aveva bisogno di carezze, di seduzione, di erotismo, per godere appieno di un amplesso. Aveva bisogno di sentirsi desiderata. 

E in effetti Alberto la desiderava sempre, erano i modi rozzi e sbrigativi con cui la prendeva a deluderla ogni volta. 

Come quella mattina, per esempio. Mentre era in bagno, china a lavarsi il viso, lui si era avvicinato e, apertosi l’accappatoio, aveva iniziato a strusciarlesi addosso, premendole il membro turgido tra le natiche. Quindi, l’aveva afferrata per i fianchi tirandola indietro e costringendola a piegare il busto in avanti, e glielo aveva messo dentro senza tanti preamboli. 

Cristal si era lasciata andare a quell’assalto animalesco, inarcando il bacino. L’amplesso era durato pochi minuti, ed era stata brava a fargli credere che lui fosse un amante eccellente.  Con i palmi stretti al bordo del lavabo, era andata incontro alle spinte di lui con finto entusiasmo. Il rumore dei corpi che sbattevano l’uno contro l’altro si era mescolato ai suoi gemiti ansanti che si alzavano di tono, man mano che lui spingeva con più vigore. 

«Ti piace? Ti piace il mio cazzo?»

Lei non aveva risposto, e allora il tono di lui era divenuto più brusco. «Dimmelo… dimmi che ti piace.» 

Cristal aveva continuato a tacere, lasciandosi sfuggire soltanto dei sommessi mugolii. Allora lui le aveva afferrato i capelli con una mano, costringendola a girare la faccia e a guardarlo. 

Sapeva che finché non gli avesse risposto, Alberto non avrebbe mollato la presa, e le stava già facendo male.

«Sì, mi piace! Sìììì… aaahhh… sììì.» 

Lo aveva detto con un tono voluttuoso, allargando le gambe e muovendo il bacino con energia.

A quel punto, lui le aveva lasciato i capelli, e, arpionandole i fianchi con le dita, aveva spinto più forte, una, due, tre volte, finché non si era allontanato bruscamente, e grugnendo, si era svuotato sui suoi glutei.

Tutto era finito in poco più di dieci minuti. Lui si era infilato di nuovo sotto la doccia, mentre lei, dopo essersi ripulita grossolanamente, era andata in cucina a preparargli il caffè.

Ed ora eccola lì, per l’ennesimo giorno a rispettare il rito del saluto mattutino.

«Ci vediamo stasera.» Suo marito si sistemò il cavallo dei pantaloni, prima di darle un ultimo bacio schioccante sulla fronte e aprire la porta.

Cristal annuì, continuando a sorridere, mentre uscivano sul patio. In quel momento si sentiva una sciocca, una donna sciocca, bugiarda e insoddisfatta. Lo seguì con lo sguardo finché non raggiunse il SUV parcheggiato in fondo al giardino, poi, improvvisamente, un velo di tristezza le oscurò il volto.

Da qualche mese, Alberto non era più lo stesso. Lo sentiva distante, come se avesse la mente occupata altrove, ed era spesso di cattivo umore. O forse era lei a essere cambiata, perché sempre più frequentemente veniva colta da momenti di sconforto. Si sentiva sola e vuota. Se avesse dovuto scegliere una parola per riassumere i suoi stati d’animo, era infelicità il termine giusto. 

Vide l’automobile grigia uscire dal cancello e allontanarsi lungo la strada. Poi si guardò attorno circospetta e, accertatasi che nessuno dei vicini la stesse osservando, si fermò a controllare i fiori nei vasi.

Era la fine di agosto e già al mattino presto c’era un caldo infernale. Le gambe nude e lunghe svettavano sotto la vestaglia corta di seta viola a mezze maniche, chiusa solo da una cintura annodata alla vita. Ancora una volta gettò un’occhiata alle ville dei suoi vicini.  

A ventotto anni, Cristal poteva esibire con orgoglio un corpo giovane e dalle morbide curve sensuali. Tuttavia, non le piaceva mettersi troppo in mostra, tranne quando era insieme al marito, che pretendeva l’ostentazione della sua bellezza. Oppure in casa, quando era da sola. Allora si guardava allo specchio con attenzione e ammirazione. A volte si toccava, perfino, ma sempre pensando alla voce di Alberto che le sussurrava parole di desiderio, alle sue mani che le carezzavano la pelle cercando i punti più sensibili per farla godere, alle sue labbra che sfioravano con ardore ogni parte del suo corpo…

No, questo esisteva solo nelle sue fantasie, perché in realtà suo marito non l’aveva mai presa come lei desiderava.

Afferrò le forbici poggiate sul tavolo e, aggirandosi tra gerani e surfinie, iniziò a togliere foglie morte e fiori secchi, ignara dell’uomo che, dall’altra parte della strada, la stava osservando attraverso le grate della recinzione.

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