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La notte dello scorpione

1.

 

6 agosto 2012, ore 21:50

 

Questo caldo è insopportabile. Manca l’aria.»

Sissi agitò la mano davanti al viso per farsi vento e con l’altra si aprì di più lo scollo della camicetta a giromanica.

«Sono giorni che non dà tregua», continuò. «Oggi, poi, è stato un inferno. E non accenna a diminuire.»

Prese il fazzoletto di cotone dalla tasca della minigonna fucsia e se lo passò in mezzo ai seni, strizzati nella morsa del push-up. Poi si girò a guardare il giovane che guidava, e sorrise prima di aggiungere: «In estate sudo come un maiale e, ci crederesti? Le tette sono quelle che mi sudano di più.» 

Si portò il fazzoletto sotto il naso. Aspirò e fece una smorfia di disgusto prima di scoppiare a ridere, gettando la testa all’indietro sullo schienale. 

«Sudo come un maiale e puzzo come una capra. Mi dispiace per te, tesoro, questa sera ti è andata male. Lo Chanel n°5 taroccato è evaporato prima del tempo.» 

Si voltò di nuovo per vedere se lui avesse sorriso alla sua battuta. Ma le mani chiuse attorno al volante, lo sguardo fisso sulla strada e l’espressione severa rivelata dal sopracciglio inarcato, le fecero capire che, probabilmente, era assorto nei suoi pensieri e neppure la stava ascoltando. 

Quindi scrollò le spalle e rimise il fazzoletto nella tasca. 

«Accendi l’aria condizionata, sempre che su questo catorcio funzioni… ops… scusami», aggiunse mettendosi la mano davanti alla bocca, consapevole della gaffe che aveva appena fatto nel chiamare catorcio quel vecchio Pick up. 

Gli lanciò un’occhiata di sbieco. Lui continuava a guardare oltre il parabrezza. A quanto pareva, il tipo non aveva voglia di fare conversazione, ma lei non sapeva stare in silenzio. Odiava il silenzio. Le metteva angoscia.

«Comunque, io mi chiamo Sissi. Lo so, non è proprio un nome da puttana, ma quando il mio uomo ha detto che avrei dovuto scegliermi un nome d’arte, ho pensato alla Schneider. Era così bella nella veste della Principessa Sissi. Raffinata. Elegante. Ho visto quel film così tante volte che ho perso il conto. Anch’io, sai, mi vesto elegante quando quel pidocchioso di Luc si degna di portarmi a cena fuori. Luc è il mio uomo, quello che si prende cura di me», tenne a spiegare Sissi prima di andare avanti. «Certo, non si può dire che Da Gino il pecorino sia un locale raffinato. È piccolo, appena trenta posti. Però si mangia bene e fa prezzi alla portata delle sue tasche da tirchiaccio. E comunque, un po’ alla Schneider ci somiglio per davvero, non trovi?» 

Si girò di nuovo a controllare se avesse attirato l’attenzione del giovane, ma nulla era cambiato. 

«Sì, ci somiglio», continuò, riportando lo sguardo sulla strada. «Me lo dicono tutti. Somiglio alla Schneider della Principessa Sissi. Luc mi prende in giro. Lui dice che al massimo posso essere la Principessa dei cazzi e che non devo darmi tante arie. Dice che non ho il fisico da Principessa. Ma perché, le principesse che fisico hanno? Forse non possono avere il culo grosso?» domandò chinandosi leggermente di lato per darsi una sonora pacca sulla natica. Poi sorrise ammiccante verso il giovane, che però continuò a ignorarla.

«La verità è che lui è un maledetto stronzo» proseguì risistemandosi sul sedile. «Appena ho la possibilità, lo lascio… Ehi, ma dove stiamo andando?»

Sissi guardò con preoccupazione fuori dal finestrino. Il furgone aveva appena lasciato la strada provinciale per imboccare una via secondaria. I fari illuminavano la ghiaia a terra e la debole luce della luna calante le faceva intravedere l‘ombra di una fitta vegetazione su ambo i lati. Era una strada stretta e il Pick up la occupava totalmente. In alcuni tratti, i rami di qualche arbusto strusciavano contro la carrozzeria, emettendo un debole fruscio. 

«Non lo so mica se mi posso fidare di te. Dove mi stai portando?» ripeté, girandosi verso il giovane.

L’altro non rispose e scalò la marcia, mentre il Pick up nero arrancava su per la salita.

«Da quando mi hai caricata su questo furgone non hai detto una parola. Non hai la lingua, forse? Te l’ha mangiata il gatto?» ridacchiò, nervosa. «Non mi hai chiesto neppure quanto mi prendo per…» Si interruppe perché un pensiero fastidioso si era all’improvviso insinuato nel suo cervello. «Ehi, non è che sei uno spiantato che si fa succhiare l’uccello e poi non paga, vero?»

Il giovane non rispose e cambiò di nuovo marcia, accelerando l’andatura. Sissi sobbalzava - e con lei il suo seno opulento - ogni volta che il Pick up finiva con la ruota in una buca, oppure superava qualche grossa radice che sporgeva dal terreno. 

«Fammi scendere! Ferma subito questo rottame e fammi scendere», urlò, mettendo la mano sulla maniglia della portiera. 

Era pronta a saltare fuori da quel trabiccolo in corsa. Sempre meglio rompersi qualche osso da sola che farselo rompere da qualcun altro, come le era già accaduto. 

Ripensò all’uomo ben vestito, con una bella macchina e un profumo costoso, che sei mesi prima si era fermato nello spiazzo, lungo la provinciale, dove lei tutte le sere sedeva sulla sua scomoda sedia di plastica bianca in attesa di clienti. 

Quel taccagno di Luc neppure una poltrona aveva voluto comprarle. Diceva che il suo culo stava bene pure su una sedia. Una poltrona sarebbe stata troppo regale e avrebbe potuto montarsi la testa. Bastardo! 

L’uomo aveva abbassato il finestrino e le aveva detto: «Sali». Semplicemente e solo: Sali. Non le aveva domandato né quanto costasse la prestazione e né le aveva espresso il suo desiderio. Lei era salita lo stesso, perché l’auto e il vestito le avevano fatto credere che a quel cliente avrebbe potuto chiedere più del consueto. 

L’uomo aveva guidato per almeno mezz'ora, prima di inoltrarsi in una stradina di campagna. Una volta spento il motore, aveva preteso un rapporto completo senza l’uso del preservativo. Lei si era rifiutata, proponendogli un pompino con ingoio. 

Luc l’aveva rassicurata che l’AIDS non si contrae con i rapporti orali, perciò quella era l’unica prestazione in cui non pretendeva l’uso del profilattico. 

Ma l’uomo l’aveva minacciata con un coltello che aveva tirato fuori da una delle tasche del suo bel completo elegante, ribadendo la sua intenzione. Terrorizzata di finire ammazzata e gettata in qualche burrone, Sissi aveva acconsentito. Per fortuna, almeno era stata una cosa veloce. Non che una malattia non potesse beccarsela anche in trenta secondi di contatto pelle a pelle, ma pensava che più l’arnese di lui fosse rimasto dentro la sua fica, più le probabilità di contrarre una qualsiasi malattia sarebbero aumentate. 

Dopo aver goduto, l’uomo l’aveva riaccompagnata alla sua postazione di lavoro. Quando lei gli aveva presentato il conto – ed era stato salato, visto il rischio a cui l’aveva esposta con un rapporto non protetto – l’altro l’aveva picchiata brutalmente e l’aveva gettata fuori dall’auto senza darle un centesimo. 

Quell’esperienza le era servita da lezione e di certo non voleva ripeterla. Ora, però, si stava chiedendo se anche il giovane al volante di quel Pick up fosse un pervertito incosciente che l’avrebbe costretta a qualcosa di pericoloso. Si stava pentendo di essere salita su quel furgone, senza aver prima messo le cose in chiaro. Avrebbe dovuto imporre lei il posto, dove consumare quella seduta di sesso a pagamento, e avrebbe dovuto anche avvertirlo dei prezzi per le diverse prestazioni. 

Per trenta euro glielo avrebbe preso in bocca e per trentacinque avrebbe pure ingoiato. Ai suoi clienti piaceva che ingoiasse, facendosi colare il seme ai lati della bocca. Quando lo faceva la guardavano, alcuni con un’espressione di potere, altri con un senso di gratitudine. Ma era tutta una finta. In realtà, lei lo tratteneva in bocca per qualche secondo, e poi, con la scusa di soffiarsi il naso, sputava tutto nel fazzoletto. 

Quaranta euro bastavano se voleva metterglielo in fica, ma se desiderava entrarle dietro, allora, avrebbe dovuto sganciarne ottanta. Eh, sì, il culo era più caro. Luc avrebbe voluto che lo facesse pagare cinquanta, come le sue colleghe di colore. Che se lo facesse mettere lui, nel culo, a quel prezzo. Stronzo! 

Per una spagnola andavano bene anche venti euro. Se, però, avesse chiesto più di una prestazione, lei non faceva sconti. Non era un supermercato dove paghi uno e prendi due. Se invece avesse solo voluto parlare - e gliene erano capitati di quelli che volevano solo essere accarezzati mentre, con la testa sopra il suo seno, le raccontavano i loro guai - gli avrebbe dato il numero di una brava psicologa, perché lei era stufa di fare la consolatrice. Aveva già abbastanza problemi, senza doversi sobbarcare anche di quelli dei clienti frustrati. E se fosse stato al verde, gli avrebbe consigliato un prete. Sarebbe stata la soluzione ottimale, non avrebbe cacciato un centesimo, però si sarebbe dovuto sorbire la ramanzina e la penitenza.

Se poi avesse voluto farlo senza guanto, lo avrebbe mandato a quel paese per direttissima. Lei non giocava alla roulette russa. Ci teneva a vivere, quindi, mettersi il profilattico era una regola fondamentale e indiscutibile.

Il giovane le artigliò il braccio e la attirò verso di sé. «Ho i soldi. Ti pagherò, non temere.»

Il tono con cui aveva parlato era stato pacato e quando Sissi lo guardò, si tranquillizzò vedendogli il sorriso sulle labbra. 

«Ah, bene», commentò soddisfatta. «Quindi la lingua non te l’ha mangiata il gatto», sogghignò, sfiorandogli il dorso della mano con cui avvolgeva il pomello del cambio. «Hai pure una bella voce», aggiunse. «E sei un bel ragazzo. Per lo meno farlo con te sarà un piacere, non solo lavoro.» 

Il giovane sorrise ancora.

«E comunque, per tua informazione i maiali non sudano», le disse lui all’improvviso.

«Eh?» 

Sissi lo guardò come se fosse impazzito.

«Prima, hai detto che sudi come un maiale. In realtà i maiali non hanno un sistema di traspirazione e quindi non sudano, per questo si rotolano nel fango. Per riequilibrare la temperatura interna.»

Sissi non lo stava ascoltando. Era tornata a guardare fuori dal finestrino. Più il Pick up avanzava nella notte e più l’ansia le martoriava lo stomaco. Non le piaceva quel posto. Da quando avevano lasciato la provinciale e avevano imboccato la strada brecciata, non aveva visto nemmeno una casa, né avevano incontrato altri automobilisti. 

«Si può sapere dove mi stai portando?»

«Ti porto da me.»

«Da te?»

Lo guardò meravigliata. Non le era mai accaduto che qualcuno la portasse nella propria abitazione. Aveva solo un cliente abituale, che una volta al mese la invitava a raggiungerlo a casa sua. E non poteva fare altrimenti, dato che il poveretto era costretto su una sedia a rotelle da quando aveva dodici anni. 

«Non sono mica la tua fidanzata, che mi porti a casa tua. Non puoi accostare da qualche parte? Fa talmente caldo, possiamo metterci dietro il cassone. Tanto non penso che qui possa spiarci qualcuno».

Con gli occhi che, frenetici, giravano a destra e a sinistra, Sissi cercava un qualcosa, un qualche particolare che la rassicurasse. Una luce accesa visibile da una finestra, per esempio, segno della presenza di qualcuno cui poter chiedere aiuto se fosse stata costretta a fuggire.

All’improvviso i fari del furgone illuminarono un grosso cancello di ferro, ai cui lati spiccava una recinzione in cemento armato. Sissi avvistò alcuni lampioni e, non appena il Pick up si fece più vicino, si rese conto che si trattava di un casolare. Pensò che fosse la dimora del giovane e si agitò ulteriormente. Si maledisse ancora una volta per non avergli imposto di andare nel luogo dove era solita appartarsi con tutti i suoi clienti. Quello dove Luc avrebbe potuto cercarla se non l’avesse vista tornare. Luc, l’unico che si sarebbe preoccupato per la sua assenza. In Bulgaria, da dove era scappata all’età di quindici anni, ormai si erano tutti dimenticati di Yordanka, in arte Sissi, anche i suoi genitori.

Il cancello non venne aperto e tanto meno il furgone si fermò, ma si addentrò nel bosco. 

L’ansia di Sissi divenne angoscia e lo stomaco iniziò a dolerle con maggiore intensità.

«Ehi, ma dove andiamo? Non era quella, casa tua?» 

«Sì, è casa mia, ma ti porto nella dependance. Se mio zio mi vede arrivare con una put… con una come te, mi prende a cinghiate», rispose lui fissandola per alcuni secondi. E poi scoppiò a ridere. Una risata inquietante che le fece venire i brividi.

C’era qualcosa di strano in quel ragazzo, qualcosa che l’avvertiva di tenere alta la guardia. Forse era il contrasto tra il tono calmo e gli occhi, invece, duri, in cui ravvedeva una luce di crudeltà. 

Vero era che lei si fidava di tutti e poco di se stessa, ecco perché finiva sempre per trovarsi nei guai. Non le era piaciuto come lui l’aveva abbordata. Dopo essersi fermato, si era allungato verso il sedile del passeggero e, senza dire una parola, aveva aperto la portiera. Era stato un chiaro invito a salire, e lei come una stupida lo aveva accolto, anche se quel furgone vecchio e ammaccato aveva un’aria sinistra. Però era il primo cliente della serata, dopo un’ora e mezza che era lì seduta a sudare, e c’era il rischio che fosse anche l’ultimo, dato il caldo insopportabile. 

 Infilò una mano nella borsetta, tastò il cellulare finito nell’angolo destro ed estrasse un pacchetto di fazzolettini di carta. Ne prese uno e fece finta di pulirsi il naso, poi rinfilò il pacchetto in borsa e sfiorò di nuovo il cellulare. L’ansia diminuì, se pur di poco.

Dopo un breve percorso accidentato, fatto di avvallamenti e dossi, durante il quale le ritornò su pure la carbonara che aveva mangiato a cena, il giovane arrestò il Pick up in quella che sembrava una piccola radura.

«Siamo arrivati?» gli chiese.

«Sì, siamo arrivati.»

«Ma io non vedo nessuna dependance», commentò, guardandosi attorno con ansia.

«Scendi. Dobbiamo camminare a piedi per un po’. È proprio vicino al torrente.»

Sissi mise di nuovo la mano nella borsa e senza farsene accorgere, mentre scendeva dal furgone, tirò fuori il cellulare, nascondendolo nella tasca della gonna.

«Devo fare la pipì», disse all’improvviso, stringendo le gambe e piegandosi leggermente in avanti con le mani incrociate sul basso ventre.

Senza attendere che l’altro rispondesse, si allontanò, correndo verso un cespuglio poco distante. Maledisse i tacchi alti, sui quali si piegò un paio di volte mentre avanzava.  Nascosta dietro i rovi, si chinò a terra e scansò alcuni ramoscelli. Vide che il giovane la stava tenendo d’occhio, appoggiato al cassone del Pick up, con le braccia incrociate sul petto.

«Ci mette sempre un po’ per uscire. Può sembrare strano, ma mi vergogno se so che qualcuno mi sta ascoltando mentre faccio pipì», gli urlò da dietro il cespuglio.

Poi si diede un’occhiata intorno. Pensò che se pure avesse voluto fuggire, non avrebbe saputo che direzione prendere, e di certo l’altro doveva conoscere quei luoghi molto bene. L’avrebbe raggiunta con facilità.

Tirò il cellulare fuori dalla tasca della gonna, sbloccò il display e cercò il numero di Luc. Gli scrisse solo: AIUTO, la parola convenzionale che avevano stabilito in caso di pericolo. Poi cercò di inviargli la posizione tramite Whatsapp. 

«Porca puttana», imprecò sottovoce, «non c’è campo. In questo posto del cazzo non si può nemmeno telefonare.» 

«Tutto bene?» le gridò il giovane.

«Sì, ecco… ho quasi fatto. Te l’ho detto, ho difficoltà, se qualcuno…»

Ci stava mettendo troppo. Il giovane si sarebbe insospettito. Rapidamente ripose il cellulare in borsa e si sforzò di fare pipì per far sentire il rumore dell’urina che fuoriusciva. Prima di tirarsi su le mutandine, volle provare un’ultima volta. Prese il cellulare dalla tasca, ma la situazione era immutata. Nessun segnale. Nessuna possibilità di avvisare Luc o chiunque altro. 

Lo rimise a posto e si rivestì.

«Scusami, ma non ce la facevo proprio più», si giustificò, uscendo fuori dal cespuglio.

Si era stampata un sorriso radioso sulla faccia, ma dentro l’apprensione la stava divorando. 

«Dove dobbiamo andare?» gli chiese.

Lui si era staccato dal Pick up e le stava andando incontro.

«Vieni.»

Le protese la mano, che lei afferrò malvolentieri, mentre l'altra reggeva una torcia tascabile con la quale illuminava davanti a sé.

Camminarono per alcune centinaia di metri su un terreno erboso, dentro il quale i tacchi alti di Sissi affondavano per metà. Arrancava dietro di lui, cercando di fare attenzione a non prendere una storta e a non graffiarsi tra gli arbusti. 

Attraversarono un breve tratto di bosco fitto e intricato, dove il frinire delle cicale era assordante. Se il giovane l’avesse ammazzata e sepolta lì, sotto qualche albero, non l’avrebbe ritrovata nessuno, neppure i cani cercapersone. 

A un certo punto sentì il debole mormorio dello scorrere dell’acqua. Man mano che avanzavano diventava più intenso. Il torrente in quel punto doveva essere piuttosto ampio per far sentire la sua voce. Gli alberi diventavano sempre più radi e imponevano la loro presenza con i loro tronchi secolari. 

«Siamo arrivati», disse all’improvviso il giovane.

Sissi socchiuse gli occhi e cercò di mettere a fuoco. In lontananza vide una modesta costruzione in legno sulle cui pareti l’edera aveva preso dimora, avviluppandola quasi completamente. Tirò un sospiro di sollievo. Finalmente, a breve gli avrebbe dato quello che voleva e poi lui l’avrebbe riportata sulla strada principale, dove si sarebbe sentita di nuovo al sicuro.

Quando furono dinanzi alla porta, il giovane le lasciò andare la mano e inserì nella serratura una chiave, che aveva estratto dalla tasca dei pantaloni cargo. 

Sissi contò quattro mandate. Manco fosse una cassaforte, pensò. 

Il giovane entrò e, dopo aver acceso la luce, la invitò ad accomodarsi.

Altro che dependance, considerò Sissi, guardandosi attorno, questa è solo una misera baracca. Speriamo almeno che mi paghi, dopo che abbiamo finito. Siamo venuti in questo cesso di posto per fare cosa? Potevo benissimo farglielo in macchina un pompino. A quest’ora sarei potuta essere già con un altro cliente.

Lanciò ancora un’occhiata in giro. Non c’era molto da vedere. Era un unico spazio di una ventina di metri quadrati, o poco più, che ospitava al centro un tavolino in ferro rettangolare, lungo e stretto. Contro una parete erano allineati una sedia con la seduta in paglia sfilacciata in un angolo, un piccolo armadio di metallo arrugginito, e dei grossi sacchi neri di plastica, di quelli usati per contenere la spazzatura. Le altre pareti erano spoglie, e c’era solo una piccola finestra con le inferriate, che lasciava entrare l’afa notturna. Il pavimento era fatto anch’esso di legno e in alcuni punti le assi erano leggermente rigonfie. C’era un fetore di umidità e di cibo andato a male da far venire il voltastomaco. 

«Carino qui». Il sorriso che Sissi aveva sulle labbra era falso come gli orecchini di Bulgari che indossava. «È un po’ spartano ma romantico. Il cinguettio degli uccellini, il mormorio del fiume, gli alberi, i fiori… Sì, è proprio romantico», ribadì, cercando di apparire sincera. 

Cara Sissi, disse tra sé, sbrigati a fare il tuo lavoro, così entro un’ora al massimo te ne potrai andare via da questo posto di merda.

Si girò a guardare l’uomo appoggiato allo stipite della porta. Le sembrò che fosse tornato in versione il gatto mi ha mangiato la lingua e la fissava con uno sguardo torbido che le metteva i brividi addosso.

«Allora? Cosa vuoi che faccia?» gli chiese impaziente.

Il giovane continuò a scrutarla, spostando di continuo gli occhi dal suo viso, alle gambe e alla scollatura.

«Non sai da dove cominciare, eh? Con tutto questo bene di Dio.» Si afferrò i seni con le mani e li sollevò in alto, agitando il busto come una ballerina al Carnevale di Rio. 

«Vorresti venirmi qui?» lo provocò, aprendosi del tutto lo scollo della camicetta e mostrandogli i seni sodi e abbondanti.

L’altro taceva, ma Sissi notò che ansimava leggermente.

«Non dirmi che sei timido?» lo canzonò, mentre avanzava verso di lui. «Ma ci penso io a te, non temere. Ci pensa la tua Principessa Sissi a farti sciogliere.»

Lo raggiunse e gli mise le mani sulle spalle possenti. Lo carezzò con fare seduttivo. 

«Mmmm... che bei muscoli forti.» Gli strinse i bicipiti e scese più giù, sul torace, per poi risalire verso il collo.

«E questo ciondolo?»

Sissi lo stava notando solo allora. Gli aveva sbottonato la camicia fino al ventre e il ciondolo aveva oscillato, attirando la sua attenzione. Si trattava di un ovale legato a un cordino di caucciù di colore nero. Era piatto, probabilmente in acciaio, e sopra vi era inciso qualcosa. 

Lo prese e, tenendolo tra le dita, socchiuse gli occhi per mettere a fuoco. Sembrava una frase, scritta in corsivo e con caratteri non troppo grandi. Fece fatica a leggere.

«Ivan... non... ha... paura... di niente... e di... nessuno.»

Alzò gli occhi e li fissò in quelli del giovane.

«Ivan non ha paura di niente e di nessuno?» domandò incuriosita. 

Il giovane non abbassò lo sguardo, anzi, le sembrò che avesse anche gonfiato un po’ il petto. 

«No, non ho paura di niente e di nessuno», ribadì lui con voce stentorea.

«Quindi Ivan sei tu, è il tuo nome?» chiese conferma Sissi.

L’altro non rispose.

«In effetti Ivan è un nome che fa pensare a un uomo forte», continuò lei mentre girava il ciondolo. «Mi viene in mente quello zar di Russia che avevano soprannominato Il Terribile.» 

«Lo sono. Forte», rispose il giovane fissandole i seni.

«E questo cos’è? Ah, il tuo segno zodiacale. Scorpione. Io sono del Cancro. Dicono che quelli del Cancro sono lunatici. Degli Scorpioni, invece, si dice che siano passionali e affamati di sesso. È così? Anche tu sei affamato di sesso... Ivan il Terribile?» lo schernì bonariamente lei. E così dicendo, con una mano lo sfiorò tra le gambe. 

«Mmmm, anche questo di muscolo non scherza», aggiunse con un mezzo sorriso. «È potente e degno di uno zar.»

L’uomo le afferrò la mano e l’allontanò con garbo.

«Non vuoi che ti tocchi?» Era sorpresa e confusa. «Allora cosa vuoi che...»

«Allungati sul tavolo», le ordinò Ivan, mettendola a tacere.

«Vuoi mangiarmi per caso?» Rise nervosamente. Sentiva il sudore scivolarle lungo la schiena. E non poteva dire che fosse solo colpa dell'afa.

«Ti ho detto di allungarti», ripeté l’altro con un tono duro che non le piacque per niente. 

Sissi lanciò un’occhiata alla porta. Stava pensando di scappare e il giovane doveva averle letto nel pensiero, perché addolcì la voce e la tranquillizzò. «Non temere. Non voglio farti nulla di male. Voglio solo darti piacere.»

Lo fissò negli occhi e le parve sincero. 

Sistemò la borsetta sulla sedia di paglia e si avvicinò al tavolino. La gonna stretta le impediva di muoversi agevolmente, quindi si poggiò con le mani e si diede una spinta fino a che si ritrovò seduta sulla superficie di ferro. I piedi rimasero ciondolanti e le decolleté fucsia, di mezzo numero più grande, caddero a terra con un tonfo.

«Distenditi», la esortò lui, avvicinandosi lentamente.

Sissi obbedì.

Basta che ti sbrighi, ché qui dentro si muore di caldo e c’è pure puzza di topo morto, disse tra sé mentre fissava la lampadina sospesa al soffitto. Era coperta di polvere e vecchie ragnatele. Le ricordò quella appesa nella cucina dei suoi, a Primorsko. Oscillava sempre, ogni volta che qualcuno sbatteva la porta di casa. Oscillò anche il giorno che era entrato Nikolay, ubriaco. Poi, distesa sul pavimento, aveva continuato a fissarla: immobile lei, immobile la lampada. Solo Nikolay si era mosso, grugnendo, sopra di lei. 

Ivan si avvicinò e prese ad armeggiare al bordo del tavolo, vicino ai suoi piedi.

Sissi sentì un click e contemporaneamente qualcosa di gelido le imprigionò le caviglie.

«Ehi, ma che cazzo fai?» gridò, sollevandosi col busto. Cercò di scalciare, ma provò dolore. Gli anelli di ferro le marchiavano la pelle.

«Liberami, figlio di puttana!» gli urlò di nuovo, cercando di colpirlo con i pugni.

«SShhh, tranquilla. Non ti farò del male. Voglio solo farti godere. Ti darò cinquecento euro se ti farai immobilizzare senza fare storie.»

Sissi, si arrestò, colpita dall’ultima frase. Iniziò a riflettere che a lei occorrevano quattro serate piene per tirare su cinquecento euro. La crisi aveva toccato anche il settore del sesso a pagamento, e la fica era andata incontro a svalutazione, assieme al settore immobiliare e a tutto il resto. Inoltre, soprattutto sul tratto di strada dove batteva lei, le colleghe africane facevano pompini per poche decine di euro e quindi s’era dovuta adeguare.

«Va bene», acconsentì tornando a sdraiarsi.

Poi il giovane si spostò. Le prese le braccia e gliele sollevò dietro la testa. Dopo pochi secondi, Sissi udì lo scatto degli altri due anelli che le imprigionarono i polsi.

Il cuore le batteva talmente forte che se lo sentiva in ogni parte del corpo. Non aveva mai provato una paura così, prima d’ora, neppure quando Nikolay era entrato dentro di lei, tappandole la bocca con una mano per non farla gridare. Però, bastava che pensasse ai cinquecento euro per controllarsi. Avrebbe fatto la cresta su quei soldi. Trecento cinquanta se li sarebbe tenuti per sé e il resto li avrebbe dati a quel bastardo di Luc.

Ivan si allontanò e Sissi cercò di sollevare la testa per vedere cosa stesse facendo. Il giovane era tornato ad appoggiarsi allo stipite della porta e la guardava con un’espressione di ammirazione. Poi si avvicinò all’armadio di metallo arrugginito, ne aprì un’anta e, quando si voltò, Sissi vide che in mano reggeva un paio di grosse forbici. 

Il suo cuore riprese a correre come una Ferrari sul circuito di Fiorano. 

«Che vuoi fare»?

«Ssshhh, non temere. È solo piacere.»

Lui le si fece più vicino e le sfiorò il dorso dei piedi con la punta fredda delle lame.

Sissi aveva smesso di respirare. La pelle sudata aveva l’odore del terrore. Cominciò a piagnucolare. «Ti prego, che vuoi fare?»

«Nulla, non aver paura. Sarà solo piacere.»

«Lasciami andare, ti supplico. Non li voglio i cinquecento euro. Non voglio niente, ma lasciami andare via.»

La forbice risalì lungo le cosce fino all’orlo della gonna. Sissi sentì la stoffa che veniva tagliata fino alla cintura. In quel punto Ivan dovette fare forza a causa della resistenza del tessuto e, dopo alcuni tentativi, i lembi dell’indumento si aprirono, lasciandola esposta, col piccolo perizoma in cotone del colore delle scarpe.

La punta della forbice indugiò ancora e poi la stessa sorte toccò alle mutandine. Vennero tagliate sui fianchi. Poi Ivan le afferrò nella parte inferiore e le tirò via, gettandole a terra.

«Cosa vuoi farmi?» Sissi tremava. «Lasciami andare via, ti prego.»

Stava per scoppiare a piangere. Le lacrime iniziarono a scorrere, bagnandole le guance. E all’improvviso iniziò a urlare e ad agitarsi, incurante degli anelli che le segavano la carne. Poi tacque di botto, quando avvertì la punta della forbice premere contro la carotide. 

«Sta’ zitta! Altrimenti ti sgozzo come un maiale.»

Sissi si raggelò. Iniziò a pregare, lei che non era nemmeno credente, ma nella vita arriva sempre quel momento in cui, consapevoli che si sta per lasciare il mondo, ci si appella a qualcuno o a qualcosa affinché ci venga concessa una proroga. E quel momento, per lei, era arrivato. 

Ivan le rivolse un ghigno malevolo e spostò la forbice, facendola scendere fino a tagliarle la camicetta e il push up. 

Si fermò ancora ad ammirarla, poi si allontanò. 

Lei lo sentì armeggiare sul pavimento. Cercò di sollevarsi con il capo, ma non riuscì a vedere cosa stesse facendo accovacciato a terra. 

«E ora ci divertiremo», lo sentì dire mentre si stava rialzando.

Quando si accorse di ciò che lui aveva tra le mani, Sissi spalancò gli occhi e urlò. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Non era pronta a sopportare l’orrore e lo schifo a cui stava assistendo.

Per farla tacere, Ivan raccolse dal pavimento le mutandine tagliate. Le appallottolò e gliele ficcò in bocca. Sissi, però, continuò a emettere forti versi gutturali e a dibattersi con forza. Sottili rivoli di sangue iniziarono a scorrerle lungo i polsi e le caviglie. Gli anelli le stavano lacerando la pelle, ma non si curava del dolore. Ciò che le importava era riuscire a sfuggire dalle mani di quel pazzo. 

Ivan sorrise. Terrorizzare le persone lo faceva sentire potente e sicuro di sé. Gli tornò in mente il giorno in cui aveva cominciato a farlo, molti anni prima, quando era solo un bambino.

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