
My bull boy
Capitolo 1
Il dottor Laganà mi ha di nuovo costretta a fare lo straordinario. A nulla è servito dirgli che stasera ho a cena i miei suoceri con mio cognato e la sua nuova compagna. Lui se ne strafotte delle esigenze altrui. Despota, maschilista e pure porco.
Proprio l’altro giorno, l’ho sorpreso con la mano sotto la gonna dell’ultima neolaureata che sta facendo praticantato presso il suo studio. Una venticinquenne con due tette che non passano inosservate e un culo altrettanto invadente. Ma del resto lui se le sceglie tutte così, tutte ben fornite da madre natura. Il guaio è che può pure permetterselo, dal momento che è uno dei principi del foro più prestigiosi della capitale. I giovani avvocati fanno carte false anche solo per portargli la borsa, con la speranza che li faccia restare a far parte del suo staff, invece, nessuno è mai rimasto, a meno che non fosse più che capace e di sesso maschile. Sì, perché per lui le donne sono buone solo ad allargare le gambe, e delle sue colleghe ha una pessima opinione.
Dalla sua parte ha però, oltre alla bravura, il fatto che a cinquantanove anni è un uomo ancora molto affascinante, perfetto per figurare su una rivista di moda, reclamizzando qualche orologio di classe oppure un profumo. È uno per il quale le colleghe, anche le più giovani, dimenticano la loro professionalità e le vedi trasformarsi in gatte morte ancheggianti nei corridoi dei tribunali, quando lo vedono sopraggiungere.
Lo so, perché qualche volta ho dovuto accompagnarlo e ho potuto costatare di persona come certe dottoresse in giurisprudenza scendessero dal loro piedistallo per mettersi ai piedi di un maschio alfa come lui. Che stupide!
Lo squillo della messaggeria di Whatsapp mi riscuote dalle riflessioni sul dottor Lorenzo Laganà.
Tiro fuori il telefono dalla borsa per controllare. Forse è mio marito, già in fibrillazione perché sono in ritardo. Di solito se ne infischia del mio orario di rientro, ma stasera ci sono mammina e papino a cena, quindi la mia presenza è indispensabile.
Che palle! Sono stufa. Stufa e stanca. Lui non sa fare niente, in cucina non sa dove mettere le mani e non ha mai avuto l’intenzione di imparare. Le mie figlie, invece, saranno appena rientrate oppure staranno studiando, figuriamoci se prenderanno qualche tipo di iniziativa. Chi glielo fa fare, “tanto ora arriva mamma.” Eeeh, ma prima o poi faccio un colpo di testa, qualcosa che si ricorderanno finché campano. Li getterò nello scompiglio. Qualche giorno non rientro a casa e neppure li avverto. A Chi l’ha visto? devono rivolgersi per rintracciarmi. Comunque, per stasera è tutto pronto, devo solo accendere il forno.
Apro la chat e noto subito che il numero non è tra i miei contatti. Non so a chi appartiene.
* Toc toc.
Non rispondo. Attendo, incuriosita, la sua prossima mossa.
* Posso entrare?
Mi viene da ridere e senza pensarci scrivo:
* Questa non è una casa.
* È come se lo fosse.
* Chi sei? Non appari tra i miei contatti.
* Ma ci sono adesso.
Ma non ci resterà, il genio. Appena riattacco, lo blocco o la blocco, perché di sicuro vuole vendermi qualcosa. Ma nel frattempo continuo. Sono sempre più curiosa di scoprire la sua tattica.
* Sei un uomo o una donna?
* Un uomo… Ti dispiace? Un uomo a cui hai fatto girare la testa…
Il buon umore iniziale sparisce all'istante. I puntini di sospensione, le parole che cercano intimità: non tollero i subdoli tentativi di abbordaggio.
* Senti, non ho tempo da perdere. Non sono in cerca di diversivi nella mia vita, e se li cerchi tu, hai sbagliato persona o forse hai solo sbagliato numero.
In effetti, non è proprio vero che non sono in cerca di diversivi. Da qualche tempo, inizio ad avvisare un certo malumore. Certi giorni mi sento come uno yogurt andato a male e tutto diventa pesante, già di prima mattina. Xxxx dice che succede a chi non scopa.
Io sorrido e la mando a quel paese. Tutto perché il sesso è un altro punto dolente nella mia vita. Chi se lo ricorda più come si fa? Ma non glielo voglio dire. Non mi piace essere guardata con compassione.
* No, il numero è giusto. La camicetta che, aprendosi, rivela quel solco sensuale, è la tua.
Ma che cavolo sta farneticando? È certamente un maniaco. Un tempo i maniaci telefonavano per farti le proposte oscene, ed erano in numero inferiore, oggi con internet e il dilagare dei social, te li ritrovi dappertutto e sempre più azzardati nel tentativo di usarti per il loro piacere.
I messaggi iniziano ad arrivare uno dietro l’altro. Non aspetta neppure più le mie risposte.
*Quel reggiseno bianco, quasi virginale, non avrebbe dovuto colpirmi, sono abituato a ben altro, se non fosse che i tuoi seni pieni e sfacciati lo rendevano estremamente peccaminoso.
Ma che sta dicendo? Quale reggiseno virginale?
* Solo qualche ora fa, Lisa, ho visto la tua prorompente sensualità, dinanzi alla quale il mio membro si è alzato fiero, desideroso di piangere sulle tue bianche carni.
Lisa… Sa il mio nome. Quindi mi conosce. Ma chi accidenti può essere? E poi, piangere sulle mie bianche carni? Un maniaco sessuale poetico m’è capitato, roba da pazzi.
* Mi piacerebbe tanto passarci la lingua su quelle colline, bagnarle, per poi scivolarvi in mezzo con facilità fino a ricoprirle di nettare caldo, e vedertelo leccare con gusto dalle mie dita.
È senz’altro un pazzo invasato. Non c’è ombra di dubbio. Sto per bloccarlo, ma arriva subito un altro messaggio.
* Non ti eri neppure accorta che la tua camicetta si era sbottonata, vero? Avevi appena finito. Claudia ti aveva già consegnato i biglietti per il viaggio, per quel porco di Laganà, e tu ti stavi infilando di nuovo il cappotto nero elegante, ma che non rende giustizia al tuo corpo. Io ti farei vestire in tutt’altro modo, Lisa. Ti mostrerei al mondo intero. Farei vedere a tutti quanto sei affascinante ed eccitante. Tutti dovrebbero ammirare la tua seducente bellezza.
Torno con la memoria a ciò che ho fatto nella giornata e inizio a mettere i tasselli uno dietro l’altro.
Forse ho capito dove mi ha vista questo maniaco. Nel tardo pomeriggio mi sono recata presso l’agenzia di viaggi, in piazza Barberini, per pianificare una breve vacanza di piacere per l’avvocato Lorenzo Laganà.
Sono la sua segretaria da quasi due anni e svolgo le tante mansioni che competono a una segretaria, incluse quelle strettamente personali.
Questa mattina è entrato nel mio ufficio e come sempre, quando ha simili richieste da farmi, si è chinato sulla scrivania e sottovoce mi ha incaricata di prenotargli l’aereo e l’albergo per il weekend prossimo, presso una località nel Nord Italia.
Questo suo modo di fare è un messaggio in codice tra noi, vuole significare che tutto deve restare tra me e lui, perché sta andando a trastullarsi con qualcuna.
Nel chinarsi l’ho anche visto gettare l’occhio nella scollatura della mia camicetta che, da quando ho messo su qualche chilo, mi sta un po’ troppo stretta.
Mi mette sempre a disagio il dottor Laganà. A volte lo sorprendo a guardarmi con occhi interessati e credo che, pur non corrispondendo ai suoi ideali di bellezza, un weekend con me se lo farebbe volentieri. Più volte mi ha lanciato messaggi in tal senso, ma non è mai stato sfacciato, finora, forse perché teme di poter perdere una brava ed efficientissima segretaria. Sì, perché se ci provasse, sa bene che mi licenzierei. Mai avere relazioni sul posto di lavoro, le dinamiche che ne scaturiscono sono sempre complesse e prima o poi ti metti nei guai. Tanto più che lui è anche sposato.
Infatti, il motivo per cui ho acquistato i biglietti direttamente presso un’agenzia e non su internet, come fanno quasi tutti, sta nel fatto che la contabilità dello studio la tiene sua moglie, una rinomata commercialista della zona sud di Roma. Quindi, per non lasciare tracciabilità, il furbone preferisce che questi tipi di transazioni economiche vengano fatte usando il contante.
Quando questo pomeriggio sono andata per fare la prenotazione, non c’è voluto molto tempo, conoscevo già la meta predestinata, e dopo appena mezz’ora ero già pronta per rientrare in ufficio. Mentre indossavo il cappotto, il movimento ha fatto aprire due bottoni della mia camicetta traditrice, ma non me ne sono accorta subito. È stata una donna che ho incrociato mentre uscivo, a farmelo notare. In quel momento c’erano diversi clienti, alcuni anche uomini, e mi sono sentita terribilmente a disagio.
Evidentemente il maniaco sessuale che mi sta whatsappando deve essere qualcuno che stava passando in strada e guardava attraverso il vetro, oppure uno degli uomini lì dentro.
Sì, però, come fa a conoscere il mio nome? E ha addirittura il mio numero. Situazione piuttosto strana che mi lascia perplessa, ma non replico, anche perché non mi dà neppure il tempo di farlo.
* Prima che tu ti chieda se sono un pazzo, ti rispondo di no. Sono il proprietario dell’agenzia ed ero lì per controllare alcune cose, ma tu non mi hai notato.
Ecco perché ha il mio numero, il bastardo. Lo ha preso dal loro data base. Infatti, Laganà fa fare la prenotazione a mio nome, in tal modo è certissimo di non lasciare traccia alcuna, dunque è il mio nome a essere registrato. E comunque dove cavolo è finita la privacy? Non può mica usare quei dati per i suoi comodi.
* No, non sono un farabutto o un maniaco. È solo che mi hai fatto venire una voglia incredibile di portarti attraverso le fiamme del peccato. Sono giovane, Lisa, ma sono un Bull e quindi abituato a fare il diavolo e ad accendere la passione.
Ma da dove diavolo è uscito questo? Un giovane? Giovane, quanto? Ma mi ha osservata? Li porto bene, certo, ma ho pur sempre i miei quarantotto anni. E poi che cos’è un Bull? Forse ci manca la ‘o’. Si è sbagliato a scrivere. Forse la parola esatta è bullo. In effetti mi sembra proprio un tipo bulletto.
* Se tu fossi mia, ti farei indossare abiti succinti. Niente pantaloni, solo gonne o vestiti, perché vorrei sempre poter toccare le tue gambe, carezzarti dolcemente le cosce fino a raggiungere il fulcro del tuo piacere, per affondarvi dentro le dita e farti godere.
Dio santo! Dovrei bloccare quest’invasato, invece le sue parole mi stanno scaldando e non riesco a smettere di fissare quel display che si riempie di proposte indecenti. Perfino la serata con i miei suoceri all’improvviso non mi sembra più così pesante. Una nuova energia si sta impadronendo di me, man mano che leggo i suoi messaggi sempre più arditi, e anziché sentirmi offesa da essi, ne divento dipendente.
Dovrei impedirgli di avere accesso al mio numero e invece, quando mi rendo conto di essere vicina alla fermata dell’autobus mi dispiace quasi salutarlo.
* Devo andare. E poi non mi interessa niente di quello che dici.
Scrivo un messaggio brusco e sbrigativo, magari così sarà lui a decidere di lasciarmi in pace, vedendo la mia scarsa partecipazione.
* A presto.
«Non credo,» dico sottovoce e con un po’ di rammarico, mentre metto il telefono in borsa.
~
Mi affretto verso casa, sono in ritardo. Tra meno di un’ora la famiglia di mio marito invaderà il mio soggiorno, in attesa che venga servita la cena.
Le parole del bullo mi accompagnano, continuando a vorticarmi nella mente e suscitandomi a tratti una vertigine nello stomaco, una sorta di eccitazione dei sensi. L’aver destato il suo interesse mi ha restituito, per un momento, quella verve di quando ero una giovane donna, bella e desiderabile, pronta a sfidare il mondo.
Mentre scaldo l’arrosto, faccio una ricerca veloce su internet per cercare la parola Bull e non approdo a nulla. L’unica cosa che posso dedurre, visto che in inglese il termine significa ‘toro’, è che forse si stava riferendo al suo impeto sessuale. Forse è un giovane focoso, forse un appassionato di Milf. Oggi va tanto di moda, tra i giovani maschi, sedurre donne che potrebbero essere la loro madre. Ma il fatto è che io non sto cercando un Bull Boy; non credo di volere un giovane che mi monti come un toro.
Intanto è tutto pronto. Anche gli ospiti si sono già accomodati a tavola, mentre io ho tanta voglia di mollare tutto e uscire a farmi una passeggiata nel parco qui vicino, oppure andare a stordirmi di spritz al bar all’angolo. Mio Dio, quanto è difficile mantenere questa facciata, e ancora più difficile è ignorare la voce interiore che mi urla di scappare, di smettere di fingere che vada tutto bene. Ogni risata, ogni parola di circostanza mi pesa come un macigno sul cuore. Mentre li guardo chiacchierare e ridere, mi sento un'attrice in una commedia che non ho mai voluto recitare. Mi sento soffocare dalle aspettative, dai doveri, dalla routine che mi incatena ogni giorno di più. Mi domando se qualcuno si accorga del mio disagio, se qualcuno veda il mio vero io, nascosto dietro questa maschera di perfezione. Vorrei sentirmi viva, invece, maledizione! Voglio ritrovare quella verve che una volta mi faceva brillare. Ma come posso farlo in un ambiente che mi spegne lentamente? Ho bisogno di cambiare, di fare qualcosa per me stessa, prima che sia troppo tardi e io dimentichi chi sono veramente.
~
La cena procede tranquilla e noiosa come sempre. Mia suocera comincia a incensare i suoi due figli, mentre mio suocero mangia in silenzio. La compagna di mio cognato, invece, tiene gli occhi bassi sul piatto. Ha imparato a fare quello che io faccio da sempre: sorridere e pensare ai cavoli miei, mentre mamma chioccia rimarca in maniera subdola il suo potere sui figli. Quella donna è una manipolatrice nata, capace di tessere una rete di lodi e critiche con una maestria che farebbe invidia a un politico navigato. Ogni complimento ai figli nasconde una punta di veleno rivolta verso di noi, le loro compagne, come se volesse ricordarci costantemente il nostro posto. E pensate che quei rammolliti facciano qualcosa per difenderci? Macché. Sono troppo impegnati a gongolare per le belle parole della madre che, di questo gliene devo dare atto, non ha creato gelosie tra i due: sono veramente uguali ai suoi occhi.
E poi ci sono Tiziana e Clarissa, le mie due figlie, che fanno fatica a stare a tavola, mentre non vedono l'ora di ritirarsi in camera con i loro cellulari. Del resto, ventidue anni l’una e diciotto l’altra, che cosa si può pretendere? Le loro vite sono altrove, immerse nei social, nei messaggi, in un mondo virtuale che io fatico a comprendere. Le guardo che smaniano, cercando di nascondere la noia dietro sorrisi forzati, e mi rendo conto che in qualche modo le invidio. Hanno ancora tutta la vita davanti, la possibilità di scegliere, di cambiare, di ribellarsi.
A un certo punto concedo loro il permesso per alzarsi, tanto passiamo al dolce e so che non lo mangiano, ed è allora che la mia valvola di sicurezza salta.
«Ecco perché al giorno d’oggi i ragazzi sono così maleducati. I genitori non insegnano loro ad avere rispetto per gli adulti.»
È quella lingua lunga di mia suocera. So bene che si sta riferendo a me, a ciò che ho appena fatto con le mie figlie.
Guardo in faccia mio marito in attesa che intervenga, che la metta al suo posto almeno questa volta, invece se ne sta in religioso silenzio, fissando il piatto con un sorrisetto ebete che gli increspa le labbra.
Potrei esplodere e risponderle io stessa, invece implodo dentro di me. La misura è colma.
Mi alzo, facendo finta di non aver sentito, e con la scusa di togliere i piatti sporchi, me ne vado in cucina. Prendo lo Smarthphone che si sta caricando, e sulla chat di Whatsapp digito:
*Fammi peccare, my Bull Boy, portami all’inferno.
Ma non lo invio.
Poggio di nuovo il telefono accanto al cestino della frutta e resto lì a fissarlo, fino a che mio marito non appare alle mie spalle, esordendo: «Lo sai com’è fatta mamma! Potevi evitare, per stasera, di far alzare le bambine da tavola prima che finissimo.»
Chiudo gli occhi per cercare di controllare la rabbia che cresce, ma il vaffanculo parte in automatico, restandomi incastrato in gola. Resta incastrato il vaffa e tutto il resto che vorrei dirgli: primo, che sua madre è una stronza e ha sempre da ridire su quello che fanno o dicono gli altri; secondo, che lui ancora non si capacita del fatto che Clarissa e Tiziana sono ormai adulte, sono donne con una propria personalità e non bambine da dover gestire come se avessero cinque anni; terzo, che con le mie figlie faccio come cazzo mi pare, non accetto consigli da una che ha tirato su due imbecilli.
Riapro gli occhi e, senza aprire bocca, tiro fuori la crostata alle pesche - il dolce che lui ha comprato per sua madre, quello che lei preferisce e che a me fa schifo - mettendogliela in mano con il tacito invito a portarla a tavola. Il gesto è carico di significato e di disappunto, un segnale silenzioso ma inequivocabile della mia esasperazione. Lui capisce immediatamente il messaggio e, con un’espressione di imbarazzo, prende il dolce senza dire nulla. Mentre si allontana, sento una certa soddisfazione nel vedere che, per una volta, almeno il mio messaggio è arrivato chiaramente.
Mi permetto un momento di riflessione appoggiata al piano della cucina, mentre cerco di raccogliere i pensieri e trovare una via d’uscita da questa frustrazione che sembra non avere fine. Poi, prima di seguirlo, prendo di nuovo lo Smarthphone e invio il messaggio.















