
Vento di morte
1.
«Susy… Susy…»
Si svegliò di soprassalto e spalancò gli occhi, tirandosi su a sedere. Qualcuno la stava chiamando. Tese l’orecchio mentre roteava lo sguardo nella penombra della camera.
Doveva aver sognato, perché l’unica voce che sentiva era quella del vento che soffiava impetuoso, penetrando tra le fessure della casa. Il rumore somigliava a un urlo stridulo, sinistro e minaccioso.
Ogni volta che lo sentiva, immaginava sempre la stessa scena. Un mostro con le sembianze umane che, con le carni lacere e la bocca schiumante d’ira, vagava in giro per la città come un pazzo, in cerca del suo carnefice. E nel farlo, distruggeva tutto ciò che gli capitava sotto, al pari del vento che raggiungeva con prepotenza ogni anfratto, spazzando via, in un turbine, tutto ciò che incontrava sulla sua strada, senza fare sconti a niente e a nessuno. Il suo urlo gridava vendetta al mondo intero.
La potenza del vento, e della natura in generale, sa essere disastrosa, come quella degli esseri umani.
«Susy… Susy…»
Scosse la testa, come per scacciare quella voce molesta.
«Susy… vieni… non aver paura…»
No, non era il vento. Era lui. Era sempre lui.
Susy ricadde all’indietro, sul letto.
Lui continuò. La sua voce divenne un rantolo di agonia. «Susy… Che cosa hai fatto?»
«Maledizione! Perché non mi lasci in pace! Vattene!» gridò. E lanciò il cuscino per colpirlo, anche se sapeva che niente e nessuno lo avrebbe scalfito.
Si tirò su le coperte, fin sopra la testa, e si tappò le orecchie con i palmi. Un’espediente puerile e inutile. Non sarebbe di certo bastato a farlo sparire, a cancellarlo per sempre dalla sua vita.
«Susy… Che cosa hai fatto.»
«Bastaaaaa! Smettila!»
Si agitò sotto le lenzuola, scalciando, e iniziò a cantare per coprire la voce, ma anche per interrompere i brutti pensieri.
Si fermò dopo alcuni minuti e restò in ascolto. Si sentiva solo il fischio del vento. Poi, da lontano, le giunse un rumore cadenzato e continuo. Era fastidioso. Le entrava nel cervello. Sembrava che quel maledetto si stesse divertendo a colpire lo steccato con un bastone. E lo faceva battendo in maniera ossessiva, meticolosa e calcolata, apposta per farla uscire fuori di testa.
«Susy… che cosa hai fatto?»
La voce riprese a tormentarla.
«Vaffanculooooo!» gridò, saltando giù dal letto.
Tanto non sarebbe riuscita più a dormire. Inoltre erano già le otto e trenta. Doveva dare una pulita a fondo alla casa. Era da parecchio che non lo faceva, e non poteva permettersi una donna delle pulizie che lo facesse al posto suo.
Indossò la tuta, le scarpe da ginnastica e andò in cucina. Mise su la macchinetta del caffè che aveva preparato la sera prima, e prese il bricco in cui versò del latte. Poi piazzò tutto sul fuoco.
Nel mentre, quel rumore ossessivo continuava ad accompagnare ogni suo gesto.
Raggiunse il salone e si avvicinò alla finestra che dava sulla strada.
Fissò la villa di fronte, poi spostò lo sguardo lateralmente, verso l’origine di quel rumore. Era la porta di legno della rimessa degli attrezzi che, investita dalle folate di vento, sbatteva in maniera costante e regolare.
Erano quattro anni che viveva lì e quella porta l’aveva sempre vista semi aperta. Forse era rotta e ai proprietari non era mai interessato ripararla, oppure, ritenevano che dentro non ci fosse nulla di prezioso da custodire. Probabilmente quel cubicolo era diventato il ricovero transitorio di qualche animaletto selvatico di passaggio. E ora era diventata anche la tana di quel mostro. Vedeva la sua ombra all’interno, quando la porta si spalancava.
Assottigliò gli occhi e strinse i denti.
«È lì che ti sei nascosto, ora? Maledetto!»
Fino a cinque mesi prima, in quella villa avevano abitato Giorgio e Fiona Mancini, due ottantenni tranquilli e silenziosi, talmente silenziosi che molte volte aveva addirittura dubitato che fossero vivi. Il vecchio si vedeva in giardino solo nel periodo estivo. Per qualche ora, la mattina presto o la sera tardi, appoggiato a un bastone, faceva dei giri attorno alla villa, camminando a passo lento e affaticato. Sua moglie, invece, non l’aveva mai vista. Non sapeva neppure che faccia avesse.
Non aveva mai visto nessuno venire a far loro visita, tranne il medico. Non li aveva nemmeno mai visti fare un barbecue con familiari o amici. Eppure l’ampio giardino si sarebbe prestato bene a fare dei mega party. Non aveva neppure mai sentito un televisore o una radio ad alto volume, o un telefono squillare, quando, in estate tenevano le finestre aperte.
L’unica presenza costante e visibile, perché girovagava tutto il giorno attorno alla villa, era un gatto dal pelo fulvo e un collarino rosso con un campanellino. Quel tintinnio, inizialmente, le era entrato nel cervello in modo inquietante, riportandole alla memoria gli “apparitori” del Manzoni. Poveri diavoli con un campanello legato ai piedi o alla cintola, destinati a vagare in giro per annunciare l’arrivo dei monatti, altri disgraziati costretti a caricare cadaveri o portare malati nei lazzaretti.
Col passar del tempo, però, ci si era abituata a quello scampanellio, che era diventato un sottofondo simpatico e rassicurante.
Il felino era avanti con gli anni e si muoveva lento, ma aveva ancora l’istinto del cacciatore. Numerose volte, si era fermata a osservarlo mentre faceva gli appostamenti, acquattato tra l’erba. Restava immobile per alcuni minuti, poi, tutto a un tratto scattava e girava su se stesso, come se fosse stato colto da un’improvvisa pazzia. E dopo un po’ si incamminava verso la porta di casa, trattenendo qualcosa in bocca, forse una lucertola o una talpa, e la lasciava cadere sul tappeto.
Ma da alcuni mesi il campanellino non si sentiva più, e l’animale aveva smesso di cacciare in giardino. A volte scompariva per giorni, per poi riapparire sempre più magro e col pelo pieno di nodi.
Quando c’erano i Mancini, aveva visto anche una donna bionda, sui quarant’anni, spazzare il portico, tosare l’erba e gettare sacchi di immondizia, prima che salisse in macchina e andasse via. Questo succedeva almeno tre volte a settimana, a orari diversi. Adesso era sparita anche lei, così come era sparito il ragazzo che con un piccolo furgone portava, giornalmente, frutta, verdura e altre derrate alimentari che gli anziani, probabilmente, ordinavano per telefono.
Tutto questo Susy lo sapeva perché, quando era in casa e si trovava a passare davanti alla finestra, si fermava sempre a dare un’occhiata fuori, sulla strada e, inevitabilmente, lo sguardo andava anche alla villa.
Costruita su due piani, con un ampio porticato nella zona frontale, l’abitazione sarebbe stata perfetta per una famiglia numerosa. Forse i Mancini l’avevano costruita o acquistata proprio con l’intenzione di fare una nidiata di figli. La facciata, che doveva essere stata di colore bianco, in origine, ora appariva grigiastra e in alcuni punti era scrostata. Il tetto, spiovente, era policromo, segno che nel corso degli anni alcune tegole erano state sostituite, adattandole ai colori del momento. Le persiane marroni erano l’unico elemento nuovo. Susy stessa aveva visto gli operai sostituirle l’anno prima. Il giardino era chiuso, lateralmente e dietro, da una siepe di lauroceraso tenuta sempre in ordine. Anche il manto erboso veniva costantemente tosato e chi se ne occupava pensava anche alla potatura degli alberi di frutta e degli ulivi.
Poi, un sabato mattina, era stata svegliata dal suono di una sirena.
Un rumore del genere da quelle parti era impossibile che passasse inosservato come un abituale suono di sottofondo. Non erano in centro città e neppure vicino all’ospedale.
Così si era alzata e aveva sbirciato dalla finestra. Un’ambulanza era parcheggiata nel giardino della villa. Il lampeggiante blu roteava, ma la sirena era silenziosa. Poco dopo erano giunte altre due auto e il fuoristrada dei Carabinieri. Doveva essere accaduto qualcosa di grave, ma non poteva stare lì a vedere, doveva andare a lavoro.
Il giorno successivo, dai notiziari locali e da alcuni colleghi, aveva appreso che i suoi dirimpettai, i signori Mancini, erano morti a causa delle esalazioni di monossido di carbonio, scaturite da una caldaia malfunzionante. Una morte molto comune tra le persone anziane e sole.
Uno dei modi migliori per morire, quello di andarsene mentre si dorme, senza soffrire e senza disturbare nessuno.
I due non avevano figli, e a trovarli nel letto, privi di vita, era stata la donna che si recava da loro, tre volte a settimana, per fare le pulizie.
Due giorni dopo, nel tardo pomeriggio, qualcuno aveva affisso sul cancello un cartello con su scritto VENDESI, e sotto, il numero di un’agenzia immobiliare.
La settimana successiva, aveva visto un grosso camion per i traslochi parcheggiato dentro il giardino. Tre uomini, giovani e muscolosi, erano e usciti in continuazione dalla villa, portandosi via pezzi di mobilio e scatoloni di cartone, pieni, probabilmente, di oggetti e biancheria.
Poi, trascorso qualche mese, un pomeriggio in cui stava pulendo il portico, aveva notato una Passat grigia ferma davanti al cancello della villa con tre persone sedute dentro. Dopo alcuni minuti era giunta anche una Mini Minor rossa col tettino bianco, da cui era sceso un giovane in giacca e cravatta. Immediatamente, le portiere della Passat si erano aperte e ne erano venuti fuori un uomo, una donna e un bambino. L’uomo poteva avere tra i trentacinque e i quarant’anni. Alto e con il fisico imponente, indossava un paio di jeans stretti e una camicia celeste con le maniche risvoltate fino a metà avambraccio. I capelli neri, tagliati cortissimi, e la barba corta e ben curata gli conferivano un aspetto severo, avvalorato anche dall’incedere deciso e sicuro.
La donna, sembrava più giovane. I capelli biondo platino, la pelle chiara diafana e il corpo magro, la facevano apparire come una creatura eterea, fuori luogo nel mondo degli umani. Il completo azzurro - la gonna svasata fin sotto il ginocchio e la casacca a maniche lunghe di tessuto leggero - le svolazzava, ad ogni passo, attorno alle gambe nude. Al contrario di lui, lei camminava con le spalle leggermente incurvate e il capo chino, come se dovesse guardare, ogni momento, dove metteva i piedi.
Anche il bambino, che poteva avere non più di cinque anni, era sempre a testa bassa, e pareva impacciato nei movimenti, forse a causa del corpo grassoccio.
Susy si era attardata a spazzare il pavimento e a pulire le poltrone di midollino sotto il portico, dato che il vento, la sera prima, aveva portato polvere e immondizia ovunque. Aveva dedicato anche un po’ di tempo alla cura dei gerani, che aveva nei vasi appesi alla ringhiera, rimuovendone le foglie secche e nutrendole con del concime naturale.
Era ancora lì, quando aveva visto i quattro uscire dalla villa: i due uomini avanti che parlavano tra loro, e dietro la donna che teneva per mano il bambino.
Dopo aver richiuso il cancello, l’uomo col vestito e la cravatta aveva stretto la mano dei due e fatto una carezza sulla testa del piccolo. Aveva osservato i tre risalire in macchina e li aveva seguiti con lo sguardo finché non si erano allontanati. Poi, si era acceso una sigaretta ed era rimasto a fumare, poggiato alla Mini Minor. A un tratto aveva guardato verso di lei e l’aveva salutata con la mano. Susy aveva fatto finta di non averlo visto. Si era chinata a terra, facendo finta di raccogliere qualcosa. Quando si era rialzata, lui stava rimuovendo il cartello con su scritto VENDESI. Ne aveva dedotto che i tre che erano risaliti sulla Passat sarebbero stati i suoi nuovi vicini.
Da quel giorno erano trascorsi tre mesi e ancora non conosceva i loro nomi, non sapeva da dove venissero, né che lavoro facessero. L’unica cosa certa era che non le piacevano, non le piacevano affatto.
Erano chiassosi.
Il bambino giocava spesso in giardino, tirando calci a un pallone di cuoio, con cui colpiva forte la porta di ferro del garage. Quando faceva il turno di pomeriggio, la mattina era abituata a dormire fino a tardi, e qualche volta era stata svegliata dal rimbombo.
Aveva notato, però, che quando l’uomo era a casa, il piccolo moccioso non si vedeva e non si sentiva. Al massimo, se ne stava seduto sugli scalini del porticato a stritolare una pallina da tennis tra le mani.
Anche l’uomo e la donna erano piuttosto rumorosi. Tra i due scoppiavano di frequente discussioni accese, soprattutto la sera tardi, che si tramutavano in vere e proprie liti. Ma era per lo più la voce dell’uomo che Susy sentiva, e quando accadeva, si infilava gli auricolari nelle orecchie e metteva la musica ad alto volume.
In quei tre mesi, inoltre, la donna era andata due volte a suonare al suo citofono, ma non le aveva mai aperto. Non intendeva instaurare rapporti di buon vicinato e rischiare, così, di dover scambiare visite di cortesia o, peggio ancora, inviti a cena o a pranzo.
Tanto più che l’uomo con la barba la innervosiva parecchio, e non voleva averci nulla a che fare.















